Chi percorre spesso la strada che da Cortona porta a Castiglion Fiorentino, in Val di Chiana, ha la fortuna di ammirare – se la giornata e il clima lo permettono – il castello di Montecchio Vesponi. Una rocca fortificata dalle mura medievaleggianti che spicca su una collinetta come le tante altre che abbelliscono la zona. Meno di 700 anni fa, il castello apparteneva ad un inglese di nome John Hawkwood, italianizzato dallo scrittore e storico coevo Filippo Villani in Giovanni Acuto. Quando egli era ancora in vita, il solo pronunciare il suo nome poteva far tremare le gambe a più di qualcuno. Il perché è da ricercarsi nella sua trentennale avventura nella penisola, avventura che proverò a ripercorrere quest’oggi.
Per arrivare a possedere quel castello, cosa che accadrà solo nel 1383, Giovanni Acuto ne combinerà parecchie nel frammentato ed instabile panorama italiano. Finora non lo si è detto, ma egli fu un condottiero e capitano di ventura. Uno di quelli che la fama la ottenne fin da subito, mettendosi in mostra come abile stratega, freddo calcolatore, esigente uomo d’affari e perché no, personalità controversa. Della sua gioventù non si sa moltissimo, se non che nacque intorno agli anni ’20 del Trecento nell’Essex, in Inghilterra, e che a lungo lavorò come sarto o conciatore. La storia documentata e accertata di Hawkwood si può iniziare a ricostruire a partire dal 1360.
In quell’anno veniva firmata e sottoscritta la pace di Brétigny, accordo che sanciva la fine della prima parte di un conflitto lungo e sanguinoso: la guerra dei cent’anni. Dopo aver servito fedelmente re Edoardo III d’Inghilterra, e in particolare suo figlio, il famigerato Principe Nero, John di tutto aveva voglia tranne che tornare a casa nell’Essex per lavorare pelli e tessuti. Sui campi di battaglia francesi si era distinto (sebbene le fonti siano molto generiche sul come), ottenendo qualche ruolo di comando. Prese dunque la decisione di restare in Francia e fondare assieme al tedesco Alberto Sterz la Compagnia Bianca. Una combriccola ben armata e altrettanto ben addestrata di mercenari inglesi, bretoni, tedeschi e ungheresi.
Eccezionale il tempismo, diremmo col senno di poi, perché già nel 1362 entrò a servizio del marchese del Monferrato, Giovanni II Paleologo. Il marchese ingaggiò la Compagnia Bianca (allora anche detta Compagnia degli Inglesi) per far fronte all’ostilità scoppiata con Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde per intenderci. Per le truppe sabaude e per il loro signore non ci fu storia. Alle prime toccò l’annientamento sul campo, al secondo la prigionia, dalla quale si affrancò solo dopo un lauto riscatto. Per John Hawkwood, adesso Giovanni Acuto, era solo l’inizio.
Alle porte del capitano di ventura nel 1363 bussò Pisa, impegnata in una disputa con Firenze. Solo per capire l’entità della questione: al tempo la compagnia di Acuto e Sterz era tra le più forti e maggiormente organizzate dell’intera penisola. Una stima inquadra tra le fila della Compagnia Bianca 3.500 cavalieri e 2.000 fanti, tutti praticanti (e anche bene) il mestiere delle armi. Dove passavano loro, non cresceva più l’erba. Tanto è vero che iniziò a diffondersi il proverbio “Inglese italianato è un diavolo incarnato”.
Pisa offrì la mano in cambio dei servigi mercenari, ma Acuto prese tutto il braccio. Ai 40.000 fiorini pattuiti per sei mesi, se ne aggiunsero altri 180.000 per ulteriori sei mesi e la libertà di scorrazzare e depredare il circondario della città toscana. De facto Giovanni Acuto divenne l’uomo forte di Pisa, fregiandosi della prestigiosissima carica di capitano generale.
Fino al 1364 Firenze non poté fare altro che assistere allo strapotere dei mercenari inglesi. Ma sulle sponde dell’Arno sapevano che delle volte un bel gruzzolo di denari poteva far più male di mille lame affilate. Firenze corruppe buona parte della Compagnia Bianca, lasciando Giovanni Acuto solo con 800 uomini. Non volendo rischiare il suo patrimonio nella battaglia di Cascina, Acuto accettò la sconfitta sul campo e ordinò la ritirata. Sarebbe stata la sua più grande disfatta, ma il destino farà rintrecciare nuovamente le storie del capitano di ventura e della città gigliata.
Offrì i suoi “umilissimi” servigi per la Milano viscontea e per la Roma papale. Sotto lo stendardo di quest’ultima combatté contro Firenze, dal 1372 fino al 1377. Ed è in questo lasso temporale, in cui infuriò la guerra degli otto santi, che si concretizzò uno degli episodi più oscuri della lunghissima carriera del condottiero. Nel febbraio del 1377 Cesena venne messa a ferro e fuoco dai mercenari anglo-germanici. Sia chiaro, non che nessuno potesse aspettarselo. Gli uomini di Acuto godevano di una fama nera per la loro tendenza a lasciarsi andare in massacri immotivati, stupri e saccheggi a danno della popolazione civile. Eppure Cesena, città pontificia, mai si sarebbe prefigurata una tale sciagura, autori della quale erano truppe al servizio del papa stesso!
La città di Cesena ricorda quell’evento come “Sacco dei bretoni“. Sull’episodio mi riservo il diritto di approfondirlo in futuro, perché merita un discorso a parte. Per ora ci basti sapere che i “bretoni” dell’Acuto causarono la morte di quattro o cinquemila abitanti, più della metà della cittadinanza cesenate dell’epoca.
Dopo una serie di incarichi ottenuti dagli Angioni di Napoli contro gli Angiò-Durazzo (contesa che ben conoscete se ricordate la vicenda di Ladislao d’Angiò-Durazzo), nel 1381 il capitano di ventura torna in patria. In Inghilterra re Riccardo II lo nomina prima cavaliere, poi ambasciatore della corona presso la Santa Sede. Non un buon motivo per deporre scudo e spada. Tornato in Italia, prenderà parte a sortite minori contro i Visconti di Milano. Il 1387 è un anno fondamentale, perché ha luogo la battaglia di Castagnaro. Forse non vi dirà nulla, ma rappresentò una sorta di main event in cui i più grandi capitani di ventura operativi in Italia si affrontarono in schieramenti opposti: Verona contro Padova, Giovanni Ordelaffi ed Ostasio II da Polenta contro Francesco Novello da Carrara e il nostro Giovanni Acuto. Ebbe la meglio Padova, soprattutto grazie all’ingegno tattico-militare dell’inglese.
L’ultima parte della sua vita la trascorse a Firenze. Esatto, entro le mura di quella Repubblica che tanto aveva osteggiato negli anni addietro. Giovanni Acuto sarà stato anche un notevole ed eccelso condottiero, ma non era esattamente il prototipo di cittadino modello. Tra scandali, qualche rissa di troppo e una sana abitudine ad evadere il fisco fiorentino, Sir Giovanni Acuto in potenza poteva essere un “ospite” sgradito. E invece no, la città bagnata dall’Arno volle addirittura onorarlo con un monumento, quando egli ancora era vivo e vegeto.
All’inizio si pensò ad una scultura in marmo, ma l’accavallarsi di contingenze improrogabili (morte del suddetto avvenuta nel 1394; inizio del restauro del Duomo nel 1395) deviò il progetto su tutt’altra strada. Ne verrà fuori il celebre affresco di Paolo Uccello, intitolato Monumento equestre a Giovanni Acuto. Esso ancora oggi accoglie i visitatori della Cattedrale di Santa Maria del Fiore nella navata sinistra, come rammento dell’abilità militare oltre che politico-strategica di un condottiero, l’eques britannicus – come lo definisce l’iscrizione latina – che per buona parte del XIV secolo si scatenò sull’Italia dei comuni come un uragano forza 4.