A volte è difficile dare un nome alle cose, trovare un aggettivo per ciò che accade, cercare un senso di fronte all’assassinio premeditato e spietatamente eseguito di centinaia di migliaia tra uomini, donne e bambini. Ciò, almeno nel mio caso, comporta uno sconforto difficilmente ignorabile. Poi però il “non voler dimenticare” si palesa in tutta la sua monolitica rigidità ed è grazie a questa che oggi vi parlo di Kurt Hubert Franz, il figlio perfetto della Germania nazionalsocialista, uno dei principali esecutori delle mostruose direttive dettate dalla soluzione finale.
“Lalke“, il termine Yiddish per indicare una bambola. Questo era il soprannome che Kurt Hubert Franz si era guadagnato presso l’infinita schiera delle sue vittime per via dei suoi tratti facciali puerili. Ma l’innocenza si fermava lì e l’apparenza lasciava il passo alla malvagità. Franz nacque a Düsseldorf nel 1914, in una famiglia di modesta estrazione sociale. Crescendo fece diversi mestieri, distinguendosi prevalentemente come cuoco. A 18 anni d’età, quindi nel 1932, entra nel Partito Nazionalsocialista, forse sospinto dal compagno della madre. Il giovane Kurt, un po’ come tutti i suoi coetanei, resta affascinato dalle promesse di grandezza garantite alla nazione germanica e al suo popolo, ariano e perciò fieramente superiore. Seguì un biennio di servizio nell’esercito, dopo il quale entrò nelle SS-Totenkopfverbände, inizialmente come cuoco, divenendo poi guardia e infine Unterscharführer (sergente).
Nel ’41 i superiori lo relegarono al progetto “Aktion T4“, il quale prevedeva l’eutanasia per tutti i portatori di handicap nonché affetti da malattie genetiche impossibili da curare. Tuttavia il progetto fu soppresso e per Franz iniziò l’esperienza concentrazionaria. Ormai Oberscharführer (sergente maggiore), il superiore supervisionò il campo di concentramento di Lublino e dal 1942 al 1944 quello di Treblinka. Qui prese il comando generale delle operazioni, aggiungendo alla lista degli appellativi, oltre allo smaliziato “Lalke“, quello di “Mostro di Treblinka“. Lasciata la Polonia, Franz servì a Trieste, compiendo un massacro tra partigiani sloveni e italiani, senza tralasciare la componente ebraica, ovviamente.
Ma gli eccidi non erano cosa nuova. Ogni forma di violenza immaginabile trovava piena espressione nei piani dell’ufficiale renano. Persino il suo cane, un San Bernando di nome Barry, docile fino a comando contrario, mirava ad evirare i malcapitati che finivano sotto lo sguardo sadico di Franz. E con quello sguardo, atroce nella sua perversione, il Mostro di Treblinka trucidava uomini con i quali discuteva di fede fino ad un attimo prima, picchiava a sangue donne ree di non voler lasciare i loro figli una volta scesi dai treni della morte. Con maniacale semplicità premeva il grilletto quando la canna della sua vecchia Luger puntava la fronte di un bambino…
Giocava con la mente già fragile dei deportati, come se tutto fosse parte di una recita teatrale ben scritta. Franz obbligava tutti i nuovi arrivati a cantare una canzoncina di origine ebraica leggermente rivisitata. Sostanzialmente il testo inneggiava alla bontà del lavoro svolto nel campo di concentramento e alla ricerca della felicità in quel posto demoniaco, in cui morirono dalle 700.000 alle 900.000 anime. Per intenderci, un numero secondo solo a quello di Auschwitz Birkenau. Andrebbero dette altre mille cose, come quando gettò dei ragazzini tra le fiamme dei corpi bruciati, invocando le madri a seguirli in quell’inferno. Orrore, nulla più.
Terminata la guerra, non si sa bene per quale motivo Kurt Hubert Franz sfuggì alla giustizia fino al 1959. Lavorò come cuoco fino a quell’anno, tra l’altro utilizzando il suo vero nome. Accusato della morte di oltre 300.000 persone, indicato come uno dei più grandi criminali dell’Olocausto, la corte lo condannò all’ergastolo. Dopo aver scontato 28 anni, venne rilasciato per motivi salutari. Morì in una casa di riposo nel 1998. Nella sua abitazione di Düsseldorf gli ispettori ritrovarono un album fotografico intitolato “bei tempi“. Al suo interno si trovavano circa un centinaio di fotografie immortalanti esseri umani nell’agonia più totale durante gli anni di Treblinka. E ora ditemi, come si fa a dare un nome a tutto ciò?