Deviati, osceni, da correggere per non far cadere altri nel turpiloquio. Il regime adottava questo comportamento nei confronti dell’alterità, qualunque essa fosse. Ma gli omosessuali rientravano in una categoria a parte, da dover gestire perché considerata esterna all’omologazione tanto cara alla camicia nera. L’analisi di questa condotta istituzionale ci conduce, per forza di cose, sull’isola di San Domino, facente parte dell’arcipelago delle Tremiti, al largo adriatico della Puglia.
Sebbene ultimamente si sia accennato, scritto e detto qualcosa a riguardo (anche grazie al lavoro di sensibilizzazione che le comunità direttamente interessate stanno svolgendo), a lungo la storia della comunità gay confinata a San Domino è rimasta sepolta tra le pieghe del tempo. Tuttavia questa vicenda è carica di significato ed è bene che se ne parli, per non dimenticare, quantomeno. L’anno da cui parte la mia narrazione è il 1938. Il governo è prossimo alla promulgazione delle leggi razziali e per dare un contorno al processo di soppressione della eterogeneità sociale si prende la briga di individuare un’isola sulla quale confinare gli omosessuali, un insulto al prestigio della nazione italica.
Tuttavia l’esigenza di imprigionare questi “strani diavoli” (come li chiama un cronista dell’epoca) rispondeva più ad un capriccio formale che ad una vera presa di posizione nei confronti di una comunità sparuta, debole, ufficialmente inesistente (ufficiosamente silenziosa). Per comprendere ancora meglio il punto della situazione, ci basti sapere che in quell’Italia iper nazionalista, avversa alla diversità e al dissenso, neppure esisteva una legge che definisse reato l’omosessualità. Il codice penale dell’epoca, ovvero il Codice Rocco, non riteneva necessario legiferare su un qualcosa di così poco conto.
Tra il 1938 e l’anno successivo, Roma individuò San Domino per isolare quel gruppo di “malati”. Si scelse l’isola facente parte delle Tremiti per una semplice comodità strutturale. Sul quella povera terra circondata d’acqua cristallina esisteva un penitenziario fin dalla prima metà dell’Ottocento, quando l’amministrazione era borbonica e la sovranità apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Anche il Regno d’Italia si avvalse delle Tremiti per via della loro predisposizione penale. Lì si rinchiusero (condannandoli a morte) più di un migliaio di libici contrari all’espansionismo coloniale italiano in terra d’Africa. San Domino non era l’unica isola-carcere. La vicina isola di San Nicola ebbe l’onore di “ospitare” il socialista e futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini, proprio durante il Ventennio.
Gli omosessuali deportati a San Domino vivevano costantemente sotto la supervisione dei carabinieri. La guardia era presente sull’isola dalla prima mattinata fino alle otto di sera. Tra i confinati c’erano lavoratori di ogni tipo, da operai ad artigiani, da piccoli imprenditori a professori, acculturati e meno acculturati. I pochi documenti a noi pervenuti provano a darci una parvenza della vita quotidiana di queste persone. Rinchiusi in due cameroni della struttura penitenziaria, i confinati non godevano né di acqua corrente, né di un bagno. La luce non penetrava e la libertà di movimento era un’utopia.
Durante le ore di sole comunque gli uomini trovavano il da farsi: il tempo trascorreva tra piccole e ordinarie mansioni e lavoretti da nulla. Fortunatamente l’esperienza alienante si concluse in fretta. Nel ’40 l’Italia in guerra aveva bisogno di uomini da sacrificare, poco importava se fossero “pederasti” o altro. San Domino non perse tuttavia la sua vocazione: andati via gli omosessuali, sul posto vennero stipati ebrei e oppositori politici.
Come detto anche all’inizio, della reclusione di San Domino si sa ben poco, perché col tempo quella parte di storia venne dimenticata quasi del tutto. Oggi una targa commemora le persone che di lì transitarono forzosamente neppure un secolo fa.