Incantevole e maledetta, ammaliante ed enigmatica, ricca di storia eppure coriacea nel volerla esplicare, eternare, tramandare ai posteri. Hegra (Ἕγρα) per i greci, Madāʾin Ṣāliḥ (مدائن صالح) per gli arabi, da cui la romanizzazione in al-Ḥijr. Tanti nomi per una sola, inestimabile ed affascinante perla, in parte ancora celata dalle sabbie del tempo. Nomi che rivelano chiaramente le mille sfaccettature (religiose, geografiche o politiche) di un antichissimo insediamento. A sua volta simbolo, al pari della ben più nota – ed inflazionata – Petra, di una civiltà ancora incompresa, quella dei Nabatei.
La strana e ad oggi quasi inspiegabile decadenza nabatea fu in passato oggetto di trattazione in questa sede. Tuttavia un ripasso velocissimo è doveroso per una più completa comprensione dell’argomento. I Nabatei furono un popolo prospero e potente, in auge tra il IV secolo a.C. e il I secolo d.C. Quando i romani conquistarono l’area nel 106 d.C., stabilendovi empori commerciali e creandovi una fitta rete di relazioni diplomatiche/clientelari, dei Nabatei non si seppe più quasi nulla.
Coloro i quali fecero della polarizzazione del traffico carovaniero il loro più grande vanto si ritrovarono di punto in bianco tagliati fuori dal flusso commerciale, deviato proprio da Roma e dai suoi legati più ambiziosi. Lentamente ed inesorabilmente questa civiltà semi-nomade finì per abbandonarsi all’oblio, sparendo del tutto in epoca tardoantica.
Si deve all’archeologo ed esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt la scoperta della splendida Petra nel 1812. Mentre per quanto riguarda Hegra, la più meridionale delle capitali nabatee, nonché secondo insediamento per grandezza stando a recenti studi, la “riscoperta” europea si deve all’inglese Charles Montagu Doughty. Egli non giunse per caso in quel luogo nel 1876, ben 64 anni dopo la più illustre scoperta del collega elvetico. Voci locali parlavano di antiche rovine, maledette secondo la tradizione islamica. Il perché è presto detto. Esse erano correlate ad un popolo arabico pre-maomettiano e perciò legato agli idoli e ad insulse divinità, all’oscuro della rivelazione profetica e non benedetto dalla bontà di Allāh.
Charles M. Doughty chiamò quel luogo col nome comune presso i locali: Madāʾin Ṣāliḥ (Città di Salih). Secondo i versetti coranici, Salih fu un profeta inviato da Dio di Abramo tra gli antichi arabi per diffondere il verbo monoteista. Egli però riscontrò l’ostilità degli abitanti del luogo e per questo Allāh finì per punirli. Da qui la maledizione che, nonostante il trascorrere dei millenni, perdura in parte ancora oggi. Infatti l’Arabia Saudita, conscia del potenziale turistico del sito di Hegra (nell’area di Al-Ula), cerca, seppur vanamente, di attirare un restio interesse arabo. Se di “potenziale valore turistico” si parla, un motivo esiste. Quest’ultimo non è riconducibile esclusivamente alla faccenda nabatea, di cui permane sì la traccia più evidente, ma non l’unica.
Importanti ad Hegra sono le testimonianze lasciate dai Thamudeni (precedenti ai Nabatei) e quelle relative al seppur breve dominio romano. Per quanto riguarda il secondo citerò solamente il ritrovamento di alcune iscrizioni in latino presenti nella regione dell’Hegiaz (area nord-occidentale della penisola arabica, luogo sacro per l’Islam perché contraddistinto dalla presenza di Medina e La Mecca) risalenti al tempo di Traiano o di Marco Aurelio. A proposito dell’iniziale distinguo etimologico, i romani – latinizzando l’arabo antico – erano soliti riferirsi alla zona di Hegra col nome “Hijr“, da cui “al-Ḥijr” che significa “luogo roccioso”. Le iscrizioni romane risalenti al II secolo d.C., scoperte meno di cinquant’anni fa, sono fondamentali per una riscrittura della storia romana in loco. Le epigrafi dichiarano come presso “Hijr” vi fossero stanziate alcune legioni romane. Ciò significa che l’egemonia imperiale va estesa ancora più a sud nelle cartine geografiche rispetto a quanto si è pensato finora.
Visitare oggi Hegra significa restare interdetti di fronte alle tombe scavate nella roccia, salvate dallo scempio umano e temporale solamente da due fattori: l’isolamento geografico e l’aridità climatica. Suddetti mausolei, di un fascino unico, comunicano all’osservatore sbalordito la grandezza di un’antica e misteriosa civiltà, di cui sappiamo fin troppo poco. Abili commercianti di spezie, mirra, incenso, nonché di zucchero e cotone. I Nabatei praticarono anche l’agricoltura, che in un simile contesto significò ingegnarsi al massimo dando vita ad infrastrutture complesse per il circolo dell’acqua e la conseguente irrigazione.
Oggi permangono solo ed esclusivamente i sepolcri realizzati per l’alto ceto nabateo. Le case, che pure esistevano e rendevano Hegra un centro densamente popolato per gli standard antichi (e ancor più per quelli arabi), erano in fango e argilla. Materiali vulnerabili alle intemperie e perciò scomparsi. Ciò che invece ha resistito alla corrosione dei millenni è la bellezza di un luogo senza tempo.