Su questo non ci piove, il Cifrario Beale fa arrovellare cervelli da due secoli circa. Sebbene si conosca con discreta certezza la storia alla base dell’enigma crittografico, ancora oggi il mistero non ha una soluzione completa. Morale della favola: forse – e ripetiamo FORSE – un milione di dollari giacciono sepolti sotto qualche terreno della Virginia. In tanti non credono alla veridicità del cifrario, relegando la narrazione ad una bufala ben riuscita. Eppure sono altrettante le persone, anche tra le più preparate menti del mondo, ad aver cercato una riposta all’arcano, fallendo vanamente.
I fatti che hanno reso noto il Cifrario Beale sono molti, sfumati e intrecciati tra loro, contraddistinti anche da una velata nebbia oscurantista, che non permette di legare i punti salienti della storia attraverso un piano sequenziale e cronologico. Insomma, sono fin troppe le questioni dubbie, che non tornano, per così dire. Tutto ha inizio nel lontano 1817, quando un gruppo di avventurieri a 600 km a nord di Santa Fe, nel Nuovo Messico, si imbatte in un naturale e massiccio deposito aureo. Bingo! Il gruppo ha un capo, Thomas Jefferson Beale, il quale inizia l’opera di estrazione e, solo in seguito, di occultamento. Il luogo prescelto per nascondere la tonnellata e mezzo d’oro (più due e mezzo d’argento e gioielli vari) è la Contea di Bedford, Virginia per l’appunto.
Durante i primi anni ’20 del XIX secolo, Beale fece la conoscenza di una persona cordiale, rispettata e amata dall’intera comunità di Lynchburg, un oste di nome Robert Morris. I due strinsero una forte amicizia. Fu così che Beale, convinto di potersi fidare del locandiere e allo stesso tempo desideroso di partire per altre avventure, decise di affidargli una scatoletta sigillata. Le indicazioni erano chiare: il contenitore non doveva essere aperto da quel momento (è il 1822) fino a 10 anni di distanza, a meno che non fosse tornato Beale a reclamarlo. Scontato dire che l’avventuriero non tornò mai più. Morris addirittura attese fino al 1845 prima di scardinare il lucchetto della scatola. Al suo interno trovò documenti criptati.
Morris ricordava. Sì, ricordava come Beale l’avesse rassicurato in merito ad una “chiave” per poter leggere quei fogli, la quale sarebbe arrivata in un secondo momento. Della chiave non vi fu mai traccia. I documenti erano cinque: tre fogli colmi di numeri e due lettere. In queste Beale spiegava “come” e “cosa”. Come avevano trovato il tesoro. Cosa Morris doveva fare una volta svelata la posizione del nascondiglio. La richiesta era quella di tenere una parte per sé e dividere il resto con i familiari dei 31 compagni che parteciparono alla scoperta. Morris si spense nel 1863, non prima di aver confidato quel segreto ad un amico (di cui non conosciamo il nome). Quest’ultimo decifrò il secondo dei tre documenti (quello inerente alla descrizione del tesoro).
L’anonimo trovò la chiave nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, scambiando ogni numero per la prima lettera della relativa parola numerata all’interno della dichiarazione. Ne uscì fuori un messaggio, a conti fatti il più unitile tra i tre; coincidenze? Il primo foglio e il terzo, ancora oggi criptati, annunciavano rispettivamente l’esatta ubicazione del tesoro e i nominativi dei compagni con il quale spartire le ricchezze. Lo sconosciuto realizzò un opuscolo con il chiaro intento di rendere pubblica la vicenda, scatenando una caccia al tesoro dal 1885. The Beale Papers, questo era il nome del libello. Ed è da quell’anno che il mondo ci prova, fallendo.
Nel 1964 si è capito solo una cosa: il primo enigma del Cifrario Beale segue la stessa logica del secondo. Ciò significa che per risolverlo serve una chiave “letteraria”, quindi si è provato con la Bibbia, Shakespeare, testi giuridici in inglese e in altre lingue. Nulla da fare. I punti oscuri sono veramente tanti ed è facile pensare al tutto come un enorme invenzione. Ma se ci fosse un minimo di verità nell’intera vicenda, il Cifrario di Beale renderebbe ricco il più ardito degli ostinati, chissà, un giorno forse…