Basta nominarli in successione, come se fossero versi di una poesia, per suscitare emozioni forti nell’animo di chi ascolta. E allora diciamolo: Euripide, Eschilo, Sofocle, Aristofane oppure i meno “acclamati” ma ugualmente virtuosi Licofrone, Ione di Chio, Menandro (ben visibile nel bassorilievo di origine romana qui sotto). Fu grazie a loro, e non solo, che il teatro greco divenne una delle esperienze più sentite e partecipate dell’antichità classica.
Un’arte assoluta che mutò sensibilmente col tempo, perdendo in simbolismo religioso, è innegabile, e tuttavia guadagnando in popolarità. Forse anche questo è il segreto dell’universalità e della fama che ne garantì la sopravvivenza fino ai giorni nostri. E che dire delle strutture imponenti che ancora oggi ammaliano visitatori da tutto il mondo? Non è necessario interpellare uno specialista per comprendere come il teatro sia, al pari della democrazia e del senso della cultura, una delle più grandi eredità lasciateci dagli antichi Greci.
Parto col dire che il teatro nella Grecia classica e poi in quella ellenistica non aveva nulla a che vedere col teatro moderno e contemporaneo. Oggi si può assistere ad uno spettacolo teatrale ogniqualvolta se ne senta la necessità. Non era così nel VI secolo a.C., quando a teatro ci si recava in occasione delle Dionisie, le feste in onore di Dionisio che venivano organizzate in primavera (tra marzo e aprile). In virtù di questa iniziale valenza religiosa, il teatro attirò fin da subito una mole importante di spettatori. Un dato facilmente auspicabile visti i posti a sedere dei più grandi teatri ellenici o di derivazione greca. Epidauro (di cui vi parlammo in un vecchio articolo, qui l’approfondimento) contava sui 13 mila posti; il teatro di Dionisio ad Atene arrivava ad accogliere fino a 15 mila spettatori.
Grandi, grandissime manifestazioni in cui era impossibile pensare solo al gusto artistico o all’essenza religiosa. Andare a teatro per molte personalità di spicco di quel mondo significava discutere di politica, stipulare accordi e stringere alleanze tra un tempo e l’altro. Altra enorme differenza col presente riguarda la competitività che esisteva tra le opere messe in scena durante la giornata. Esatto, perché i vari drammaturghi erano in perenne concorrenza tra loro. A giudicare le prestazioni e l’originalità delle idee ci pensavano dei giudici, dieci per la precisione, estratti a sorte in ognuna delle rispettive tribù dell’Attica (regione di cui Atene era la principale polis). L’organizzatore dell’evento teatrale era l’arconte eponimo. Il magistrato doveva, se necessario, rispondere di tasca propria per ogni evenienza legata allo svolgimento della competizione.
Quali erano i temi è facile ipotizzarlo: i Greci adoravano rappresentare i miti fondativi della loro realtà e su questo filone vennero ideate affascinanti e mirabili tragedie. Esempi degni di nota furono il dramma Filottete di Sofocle, la trilogia Orestea di Eschilo e la tragedia Medea di Euripide. Solitamente suddette trasposizioni cercavano di mostrare allo spettatore gli aspetti limite dell’agire umano. Trovavano spazio crimini indicibili, tradimenti e vendette, tematiche riguardanti il potere, la sfrenata gestione del medesimo, l’estremo senso di colpa e la piccolezza dell’uomo in un mondo dominato dal volere degli dei.
Tragedia faceva rima con commedia, altro grande classico greco. La matrice era la stessa: opere canzonatorie e umoristiche coloravano le Dionisie. Anche se col tempo si assisté ad una virata in senso satirico, in cui la materia trattata era sostanzialmente sociale e politica. Sia qui citata ad esempio di altre Lisistrata di Aristofane, l’opera in cui le donne di Atene, per costringere i mariti a non partire per la guerra, dichiararono lo sciopero del sesso.
Durante lo svolgimento della commedia o della tragedia di turno, lo stesso attore poteva interpretare più di un personaggio. Ovviamente ciò richiedeva un’abilità sopraffina dell’artista, oltre che uno sforzo ammirabile. Non era raro che uomini dovessero calarsi in personaggi femminili. Un’abitudine derivante dal fatto che il palcoscenico fosse argomento tabù per le donne. Nulla sfuggiva al caso, neppure i minuscoli dettagli della messa in scena. A dimostrazione di ciò si tenga in mente come la morte di un personaggio non venisse mai mostrata direttamente. Essa veniva annunciata da un messaggero o, al massimo, resa evidente dal corpo esanime dell’attore sullo sfondo. L’obiettivo ultimo era quello di stupire lo spettatore pagante e per farlo le più acute menti del teatro ellenico escogitarono dei colpi di genio. Come quando Euripide si servì di gru e corde per far volteggiare in aria gli attori durante la già citata tragedia Medea.
Il teatro era aperto a tutti in epoca ellenistica, perciò dal III secolo a.C. in poi. Non sappiamo dire con certezza se le donne potessero accedere o meno a teatro durante l’età classica. La platea era sfaccettata, persino i bambini più piccoli assistevano – più perché obbligati e non per volontà propria, ad occhio e croce eh – alle tragedie dalla trama complessa e articolata. Ennesima differenza con gli eventi teatrali odierni riguardava il silenzio: oggi sacro e richiesto, un tempo utopico e continuamente violato. C’era tanto rumore e in alcuni casi, se l’opera risultava sgradita, si giungeva al lancio di cibo contro gli attori, ritenuti manchevoli di talento o scarsamente preparati.
Il disordine regnava sovrano anche quando si sfollava l’auditorio. A dircelo chiaro e tondo è Senofonte, il quale, per incentivare uno squadrone di cavalleria alla calma e al mantenimento della disposizione di marcia, disse: “perché con questi avvertimenti le ordinanze si conserveranno assai meglio che nel teatro; dove coloro i quali escon fuori a caso e disordinatamente si danno travaglio l’un l’altro“.
Per concludere, si può brevemente ragionare sul parere che i Greci avevano del teatro e dell’esperienza da esso scaturita. Alcuni ne lodavano la funzione pedagogica e introspettiva. Vedasi Pericle, convinto che con l’arte e la cultura si potesse formare il perfetto cittadino ateniese. Altri non la pensavano così e anzi rimarcavano gli aspetti negativi dell’evento teatrale, considerato in ultima istanza “ordinario” e “dozzinale”. Così si esprimeva un lapidario Platone: “facendo simili opere, dicendo su di esse siffatti discorsi, hanno infuso nel popolo l’uso di trascurare le leggi sulla “musica” e la pretesa temeraria d’esserne buoni giudici. Di conseguenza i teatri da silenziosi furono pieni di grida come fosse il pubblico a intendere il bello e il non bello poetico. Al posto dell’aristocrazia è sorta una cattiva teatrocrazia“.