L’incanto di un potere decadente. Non sono parole vuote, non si tratta di retorica fine a se stessa. È la frase che meglio racchiude il periodo vissuto, tra il 1237 al 1492, dalla città di Granada e dai suoi regnanti, appartenenti alla dinastia musulmana dei Nasridi. Ed è appunto l’Alhambra di Granada a rappresentare, per intero, quella magnificenza in costante e progressivo tramonto, quell’effervescenza culturale dalla quale l’Europa ha appreso tanto, tantissimo.
Dopo Las Navas de Tolosa (1212) gli Almohadi lasciarono un vuoto di potere nel territorio dell’allora Al-Andalus. Un vuoto che i governanti musulmani locali colmarono man mano, dando vita a los Reinos de Taifas, un periodo tanto caro alla storiografia contemporanea per i risvolti successivi alla reconquista. Questi medi-piccoli governatorati vissero un periodo di autonomia parziale solamente all’inizio. La Castiglia avanzava progressivamente, assorbendo tutti quei domini musulmani che non accettavano la subordinazione nominale e tributaria. Fu il turno di Valencia e poi di Siviglia nel 1248, così come dell’intera Murcia. Solo per fare degli esempi.
Tutti coloro che non accettavano le restrizioni cristiane fuggivano a sud, precisamente a Granada. Qui si era formato un nuovo sultanato sotto Muhammad ibn Nasr (da cui prendono nome i successivi sovrani Nasridi) nel già citato 1237. Granada allora accettò la sovranità castigliana, perciò godette di autonomia decisionale sul meridione iberico, in cambio di un minimo servizio militare e di concessioni tributarie. Prima Ferdinando III, poi Alfonso X di Castiglia, non vedevano nei musulmani granadini un pericolo da combattere, quanto più una risorsa da sfruttare. Grazie a tale contesto, capiamo bene il perché della prolungata sopravvivenza sultanale fino all’anno di grazia 1492.
In questi due secoli e mezzo, i Nasridi si dedicarono anima e cuore alla proliferazione culturale della città. Granada divenne infatti il punto di riferimento dello scibile andaluso. Ma i vari regnanti si preoccuparono anche della difesa territoriale. L’occhio dell’autorità si concentrò sulle rovine almohadi presenti in cima alla collina di Sabika. La posizione non era strategica, di più. Una collina, circondata da montagne, sotto la quale passava un fiume difficile da attraversare, il Daro. I Romani, a loro tempo, avevano già costruito un forte sulla cima del rilievo. Mica scemi.
Così nel IX secolo i musulmani crearono una prima rocca fortificata, nota come Alcazaba (oggi quest’ultima è la parte più antica del complesso). Nel X secolo però la fortificazione cadde in rovina, salvo essere parzialmente restaurata nell’XI. Tuttavia furono i Nasridi a scegliere la collina di Sabika come residenza sultanale a partire dal XIII secolo. La scelta comportò la restaurazione e l’ampliazione della rocca, che nel tempo assunse la conformazione di una vera e propria città fortificata; in arabo Qalʿat al-ḥamrā’ (letteralmente Cittadella Rossa) da cui Alhambra di Granada.
Ma l’elemento difensivo, per quanto importante (ed imponente), gareggiava con la brillante bellezza artistica ed architettonica della struttura. Fino alla caduta di Granada, a turno i vari sovrani fecero qualcosa per abbellire l’Alhambra, dando vita a qualcosa di unico, qualcosa di cui l’occhio si ciba e si soddisfa. Ma quella bellezza disarmante altro non era che l’incanto di un potere decadente.