Lì, da quelle parti, sull’isola di Nuova Guinea, fa un caldo bestiale. Oltre all’alta temperatura si denota un’umidità appiccicosa, di quella che sembra penetrarti la pelle per poi soffocarti da dentro. Fitte le giungle e rare le occasioni in cui è possibile incappare in animali o insetti innocui. Sì, perché tutto ciò che si muove in quel luogo sperduto, dimenticato da Dio, potrebbe ucciderti. Forse avranno pensato la stessa identica cosa i primi occidentali ad imbattersi nei Korowai, popolazione indigena che vive nella parte occidentale della grande isola prossima all’arcipelago malese.
Sui Korowai si potrebbero spendere davvero tante parole, spaziando tra ottica sociologica e prospettiva antropologica. Il sottoscritto non è né un sociologo, né si definisce antropologo. Aspiro ad essere uno storico e dunque di questo vi parlo: storia. Lasciamo da parte tutte le discussioni sul cannibalismo rituale e sulla particolare strutturazione religiosa che contraddistingue i Korowai. Concentriamoci invece su un aspetto che affascina ricercatori e studiosi dagli anni ’70 dello scorso secolo, ovvero da quando il nostro mondo – quello globalizzato e perennemente aggiornato – ha incontrato il loro mondo – isolato da tutto e tutti dall’alba dei tempi, probabilmente.
Ciò che noi sappiamo sulla loro storia, sul loro modo di vivere, comincia a delinearsi con i primi “studi” condotti in loco da antropologi, ricercatori e missionari. Forse una delle peculiarità che più hanno strabiliato gli occhi dei primi occidentali riguardano le abitazioni dei Korowai. Esse prendono il nome di khaim, sono fatte di legno, intrecci di fogliame e bambù. Hanno un focolare centrale e le più grandi presentano addirittura ambienti separati. Quindi cos’hanno di così speciale?
Nulla, se non fosse che sono rialzate di anche 40 metri rispetto al suolo. Ebbene sì, questi cacciatori-raccoglitori vivono sugli alberi perché sono in grado di realizzare abitazioni stabili ad altitudini pressoché proibitive. Sulla questione il dibattito accademico è apertissimo perciò prendete con le doverose pinze tutto ciò che da qui in poi dirò.
Dal decennio Ottanta del XX secolo i principali atenei del globo hanno manifestato un certo interesse per la questione. Notevole il contributo che i ricercatori di Cambridge hanno saputo dare sulla tematica abitativa dei 4.000 o poco più Korowai attualmente censiti. Secondo la tesi dei ricercatori britannici i Korowai avrebbero costruito le loro khaim ad un altezza inquadrata tra gli 8 e i 12 metri fino al tempo del contatto con “l’altro mondo”. Sempre citando il lavoro dei ricercatori, i membri della tribù da allora avrebbero iniziato a costruire progressivamente più in alto per stupire il tipico l’osservatore esterno. Una genuina manifestazione di grandezza; un qualcosa di cui andare fieri.
Anche perché il fine ultimo della bizzarra (per noi altri comuni mortali) tecnica edilizia è molto pratico: difesa. Tutela dagli animali più imprevedibili, dai serpenti velenosi e dagli insetti. Sembra anche che ci sia una ragione più astratta alla base del discorso. Infatti i Korowai credono che gli spiriti maligni infestanti la giungla non possano raggiungere le quote in cui si trovano le khaim.
Alla fine le case rialzate vengono abbandonate in media dopo cinque o sei anni, poiché ritenute instabili e consumate. Una tendenza che con gli anni e il conseguente innesto della modernità è radicalmente mutata. I Korowai quasi non vivono più su queste capanne eppure continuano a costruirle in gran numero (sempre per la logica dell’appariscenza pocanzi citata). L’approccio storico in definitiva permette di sottolineare un dato generale, di cui la specificità abitativa risulta esserne un paradigma: in un mondo in cui le culture isolate non esistono davvero (e quelle poche che sopravvivono rappresentano l’eccezione alla regola), i Korowai dimostrano quanto il contatto con l’esterno possa rappresentare un fattore disgregante e innovatore al contempo. Per dirla alla Lavoisier “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.