Nello scorso mese di gennaio gli archeologi inglesi del Cotswold Archeaology si sono resi protagonisti di un’interessante – e per certi versi enigmatica – scoperta. Questa ha riscontrato un’attenzione mediatica di tutto rispetto; il perché è presto detto. Dal terreno del Suffolk orientale sono riaffiorate quelle che l’archeologia sperimentale definisce (delle volte impropriamente) “fosse preistoriche“. Nei seguenti paragrafi sviscererò il corpus di informazioni che possediamo sul loro conto, pur non ignorando i risultati complessivi dell’indagine condotta in terra d’Albione. Iniziamo!
Prima di dedicare un po’ di spazio a queste cavità artificiali di cui si sa poco, approfondiamo come promesso l’esito della ricerca condotta nei pressi di Chelmondiston, caratteristico villaggio anglosassone situato sulla penisola di Shotley, Suffolk. Gli addetti agli scavi hanno stilato un elenco delle scoperte. Spiccano delle antiche strutture (o quel che ne rimane), così come manufatti e oggetti d’interesse che potrebbero suggerire una sorta di continuità abitativa nella zona, laddove si credeva il contrario.
“I nostri scavi hanno rivelato reperti archeologici e caratteristiche di tre periodi principali: prima età del ferro (dal V all’VIII secolo a.C. ), medio anglosassone (VIII / IX secolo ) d.C.) e tardo medievale (XII – XIV secolo ). La maggior parte degli elementi della prima età del ferro erano piccoli pozzi. Essi sono sparsi nella parte del sito che si affaccia sull’estuario; a cosa servissero le fosse preistoriche è un argomento molto dibattuto. C’erano anche alcune piccole strutture a quattro colonne, solitamente interpretate come magazzini o granai”. Il citato riprende le parole del responsabile post-scavo Richard Mortimer, del Cotswold Archeaology.
Sebbene i segni più evidenti di un’arcaica urbanizzazione appartengano ai secoli VIII e IX, ovvero in pieno periodo anglosassone, le tracce antropiche che destano maggiore interesse sono più remote nel tempo. Le “fosse preistoriche” sono ancora oggi un’enigma per l’archeologia sperimentale, la quale non è riuscita a fornire loro una spiegazione concreta, seppure esistano delle supposizioni solide e supportate da alcuni dati rispettabili. Ad esempio si pensa come tali fori scavati nel terreno svolgessero la funzione di fornaci. All’interno di fosse rinvenute su suolo francese gli archeologi hanno evidenziato la presenza di resti organici e non solo. Ad avvalorare la tesi di cui sopra ci sarebbero anche chiari segni di rubefazione sulle pareti delle fornaci.
Il più delle volte le “fosse preistoriche” hanno forma rettangolare, circolare o ellittica. Queste sono tipiche dell’Europa occidentale. La loro profondità non supera quasi mai (salvo rarissime eccezioni) il mezzo metro. L’unica certezza – evidenziata anche dagli archeologi operativi a Chelmondiston – è come suddette incavature avessero a che fare con il fuoco. Ecco il motivo per il quale in molti si riferiscono a loro col nome “fosse di combustione“. Esemplari simili e più noti sono presenti anche sulla nostra penisola, vedasi il caso neolitico di Mileto (Sesto Fiorentino, Firenze).
Purtroppo sull’argomento sono scarsi gli approfondimenti scientifici perciò mi limito a riportare le informazioni così come lo studio britannico le presenta. La scoperta nell’est inglese resta comunque di notevole importanza. A testimonianza di ciò basterebbe un singolo dato, che rende l’operazione archeologica una delle più imponenti della regione: 130 kg di materiali fittili estratti dal sito. Niente male.