C’era una volta un paese in cui ai bambini veniva prescritto il consumo di mezzo litro di vino, da servire preferibilmente nelle mense scolastiche. Quel paese si chiamava Francia e fino agli anni ’50 la convinzione che non si fosse mai davvero troppo giovani per bere un buon bicchiere di vino rimase radicata nella coscienza popolare.

Nonostante la nazione al di là delle Alpi abbia rappresentato per secoli l’essenza del progresso, dell’avanzamento tecnologico e della raffinatezza culturale, la sua vena agricola e rurale non ha mai smesso di esistere. Nelle campagne francesi fin dai tempi più lontani si è creduto come il vino rendesse più forti, più sani e soprattutto più resistenti al male che il mondo sa riservare. Tutto ciò nonostante fino alla metà del XIX secolo alcune tipologie di vini causassero più danni alla salute che altro. La tendenza resse fino a quando non intervenne un certo Louis Pasteur. Il nome vi dirà qualcosa.
Nel 1866 il fondatore della moderna microbiologia pubblicò Studi sul vino. Fra le mille osservazioni compiute nel lavoro, una in particolare risultava essere di infinita rilevanza. Sarebbe stata una grande idea riscaldare il vino a 57° per eliminare possibili impurità e microbi presenti. Una precauzione che gli costerà un riconoscimento, il Gran Prix all’Esposizione Universale del 1867, e che in seguito porterà il suo nome: pastorizzazione.

Oggi il vino non subisce quasi più processi di pastorizzazione, dato l’aggiornamento delle tecniche produttive, ma dopo i proclama di Pasteur divenne il procedimento standard. Nei fatti si evinse come fosse più sicuro bere un bicchiere di vino – purificato dal nuovo metodo – che uno d’acqua non trattata. Da qui una delle citazioni più famose del chimico e microbiologo francese “il vino è la più sana e la più igienica delle bevande”. E se lo diceva lui, allora doveva per forza essere così.
Le principali aziende vinicole cavalcarono il detto/non detto di Pasteur. Per vendere maggiormente i loro prodotti iniziarono a commercializzarli sfruttando il volto dei bambini. Un modo carino per dire “è talmente buono e sicuro che lo possono bere anche loro, a casa come a scuola”. Fu così che le aziende, mosse da un forte spirito promozionale, cominciarono ad offrire litri di vino alle scuole esaltandone i benefici. Storici, sociologi, dietologi hanno compiuto negli ultimi decenni delle accurate ricerche sul fenomeno. Uno in particolare andrebbe citato, solo per rendere maggiormente esplicita l’entità della problematica. Didier Nourisson sostiene come all’epoca la società francese era «completamente alcolizzata, ritenendo che l’alcol fosse un mezzo eccellente per uccidere i vermi e favorire la crescita».

Analizzata e giudicata con la mentalità dell’oggi, la dinamica per la quale i genitori preparavano i loro figli prima di andare a scuola mettendo nella cartella, libri, matite e mezzo litro di vino (talvolta di birra o di sidro) appare incredibile. Non in tutte le scuole del paese, ma in buona parte di quelle presenti nelle storiche regioni vinicole (Provenza, Valle della Loira, Borgogna, Linguadoca, Bordeaux, ecc.) si offriva ai bambini una buona dose di alcolici nelle ore di ricreazione. Ovviamente gli insegnanti notavano un atteggiamento più docile da parte dei bambini, tramortiti come erano dopo il pit-stop alcolico di mezzogiorno.

Il 1956 ha rappresentato un anno spartiacque per il tema “vino nelle scuole”. Il deputato Pierre Mendès France, fermamente convinto del nesso tra il vino, la malnutrizione infantile e le complicazioni derivate dall’alcolismo, fin dagli anni ’30 cercò di convincere le istituzioni a sostituire la bevanda alcolica con del latte e un qualche zolletta di zucchero. Il progetto di legge naufragò con lo scoppio della guerra, ma a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 tornò a galla. Divenuto per breve tempo Presidente del Consiglio dei ministri (giugno 1954 – febbraio 1955), mise fine alla consuetudine del vino nelle scuole. Il divieto assoluto entrò in vigore nel 1956: nessun alcolico nelle scuole per i minori di 14 anni.

Come reagì la società francese, in particolar modo quella delle campagne e dei vigneti? Maluccio in realtà. Radicata era la convinzione che un po’ di vino ai bambini non potesse fare altro che bene. Poi dava nell’occhio la sensazione che il primo ministro stesse combattendo una battaglia contro il vino per risollevare le sorti dell’industria lattiero-casearia francese, uscita sfranta dalla Seconda guerra mondiale. Insomma, per alcuni non si trattava di premura sociale e spassionata diligenza. Quanto più del tentativo di accattivarsi un settore importante anche se in difficoltà dell’economia francese e di guadagnare il voto dei contadini.
Chi non accettò le sollecitazioni dell’amministrazione pubblica sullo stop agli alcolici nelle scuole, decise di agire di testa propria. Tanti genitori continuarono a dare il vino ai loro figli – non per ripicca nei confronti dello Stato cattivo, ma perché convinti delle parole di Pasteur – mandandoli in classe mezzi storditi. Si dovrà attendere il 1981 per la totale interdizione sul vino ai liceali over 14.