L’onirismo al cospetto dell’arte, la sostanziale assenza della ragione per comprendere ciò che di più recondito la nostra mente possiede. Il Surrealismo d’avanguardia (questione prettamente novecentesca) è questo e molto altro, anche se tra Basso Medioevo e prima Età Moderna tali concetti, seppur esplorati sporadicamente, non trovavano chissà quale espressione artistica. L’eccezione esiste e si chiama “Trittico del Giardino delle Delizie“, opera tripartita nata dal genio artistico di Hieronymus Bosch, pennello fiammingo attivo tra XV e XVI secolo. Un pannello che da cinque secoli lascia perplessi, attoniti, smarriti. Perché?
La soggettività domina incontrastata quando si parla di arte in ogni sua forma possibile. Una lente interpretativa, questa, che giustifica il mistero, l’arcano dietro l’olio su tavola esposto al Prado di Madrid. Il “Trittico delle Delizie” (realizzato approssimativamente tra il 1480 e il 1490) si impone allo spettatore osservante in tutta la sua complessità. Un costante intreccio simbolico pervade l’opera pittorica, lasciando spazio di manovra ad una valutazione interpretativa. E se pensate che ciò sia un bene (almeno per una visione chiara ed univoca del quadro), vi sbagliate di grosso. L’ambiguità caratterizza la struttura artistica di Bosch e i rimandi religiosi, inevitabili per epoca e contesto storico, sono espressione ultima di questa apparente realtà.
E allora, con gli occhi dell’ingenuità, si potrebbe guardare al “Trittico del Giardino delle Delizie” come un inno alla religiosità cristiano-cattolica. Rappresentazione del paradiso perduto dopo il peccato originale o dell’inferno allegorico, carissimo agli eruditi impegnati di quei tempi andati. Ma se si è quasi certi della committenza intellettuale (si dice nasca su richiesta di Enrico III di Nassau-Breda, luogotenente presso i Paesi Bassi asburgici) più che religiosa, allora la dinamica cambia, eccome se cambia. In effetti, volgendo la pupilla alle ante laterali, altresì notiamo come il respiro cattolico lasci a desiderare.
Sì, per carità, Adamo ed Eva sono lì, come è presente tutta la raffigurazione veterotestamentaria. Tuttavia il rimando religioso si mescola alla fantasia tipica di un artista fiammingo di fine Quattrocento. La commistione è già sinonimo di capolavoro. Giù di lussuria, sfarzo sessuale, gelosia, peccato e pena; gufi che dagli angoli del Trittico indicano la strada ideale della malvagità e della perdizione, seguendo il dato allegorico di cui abbiamo contezza documentale. Il caro buon vecchio Dante sarebbe stato fiero della spennellata di Bosch. Dall’anta sinistra ci si sposta con lo sguardo a quella destra e la sinfonia resta la stessa: infernalità in tutta la sua metaforica essenza. Sul terzo pannello (da sinistra verso destra) l’ira punitiva si abbatte sull’uomo, reo peccatore e perciò meritevole del flagello, il quale deve palesarsi nella sua veste più fantasiosa. Le torture di questa specifica porzione pittorica inquietano ed impauriscono.
Il dettaglio contava per Hieronymus Bosch e per quanto possa sembrare una frase fatta, il suo impegno nel realizzare una quarta raffigurazione (che si ottiene chiudendo le ante laterali del pannello) è la plateale dimostrazione di questa ossessiva minuzia. Fin qui l’esposizione non sembra aver lasciato spazio a dubbi, e allora perché ho utilizzato il verbo “arrovellare” nel titolo, riferendomi al moto vorticoso incontro al quale sono andati i cervelli più in gamba dell’ultimo mezzo millennio? Semplice, perché nessuno ha mai conosciuto l’intento dell’artefice.
Il Trittico si pone al centro di un insegnamento morale? O vuole “semplicemente” stupire lo sguardo di chi osanna la perdizione? Si tratta invece di una sequenza narrativa un po’ intricata e quindi da derimere tramite il simbolismo imperialeggiante? A voi, posteri da cinque secoli o poco più, l’ardua sentenza.