Scomodamente incastrato tra Cinque e Settecento, ovvero i secoli contraddistinti dal soave Rinascimento e l’inizio dell’unificazione globale così come dall’avvento dell’Illuminismo e gli esordi della Rivoluzione industriale, il Seicento non ha mai goduto di chissà quale buona reputazione. Ovviamente si ragiona per paradigmi storiografici, tenendo conto dei pareri e delle illuminanti valutazioni che gli storici, tanto esteri quanto nostrani, hanno esternato negli ultimi 150 anni circa. Quindi ci si è chiesti (e mi son chiesto): davvero il XVII è un secolo corrotto?
Ancor prima di cimentarci nei fatti concreti, di cui è sopraggiunta la documentazione necessaria per analizzare gli abusi e le effettive malversazioni degli uomini più potenti dell’Europa seicentesca, mi piacerebbe restare sul generale e toccare qua e là qualche interessante nodo che la storiografia ha tentato (prima vanamente, poi con esiti migliori) di dirimere. Se tra tardo Ottocento e primo Novecento gli esperti del settore erano concordi nell’imputare alle varie guerre, pestilenze, carestie, depressione agraria e produttiva, non ultime sollevazioni o vere e proprie rivoluzioni – Fronda e Rivoluzione inglese, per intenderci – le cause della crisi endemica, dalla metà del XX secolo in poi la musica è cambiata. Sempre più storici, acuti osservatori dell’età moderna, hanno iniziato ad interpretare i fattori appena citati non come “pretesto scatenante”, bensì come “sintomo” di un male radicato.
Naturalmente il dibattito storiografico sulla “Crisi del Seicento“, in quanto secolo corrotto e decadente, ha condotto a decodificazioni originali ma spesso contrastanti. Se si dovesse tracciare una linea quanto più corale possibile per le opinioni storiche italiane, il discorso verterebbe su tematiche economiche e culturali. Benedetto Croce con Rosario Villari sulla questione del malgoverno spagnolo; Fanfani sulla Rivoluzione dei prezzi; Luzzato e Candeloro che si aggrapparono alle difficoltà economico-finanziarie del passato; il primo si concentrò sul XVI secolo, il secondo sull’età municipale e signorile.
Diversamente la storiografia estera si è concentrata su posizioni inerenti la carente produzione se corrisposta all’esponenziale crescita demografica. Dunque carestie, tensioni sociali, guerre e rivoluzioni. Fautori di questa interpretazione furono Eric Hobsbawm, Fernand Braudel, Hugh Trevor-Roper, ecc.
Detto ciò, vediamo nell’effettivo cosa significò per questi storici e per gli osservatori del Secolo dei Lumi l’aggettivo “corrotto” affiancato al Seicento. Difficilmente si restava scottati dal giudizio del monarca per la malagestione delle finanze pubbliche in età moderna. Al massimo si veniva declassati perché caduti in disgrazia agli occhi del sovrano o perché incompetenti dal punto di vista strettamente politico-militare. Insomma, la corruzione – a cui già nel Medioevo tentarono di porre rimedio, purtroppo solo superficialmente – era cosa comune e accettata. Esisteva sì un’obiezione morale ad un simile comportamento, considerato pubblicamente poco virtuoso e da stigmatizzare, ma nel privato comunemente accettato e perché no, anche incentivato. A ragion veduta, nessuno Stato, neppure il meno assolutista, riuscì a dotarsi di una legislazione severa e coercitiva atta a contrastare coloro i quali avessero attinto dall’erario pubblico per necessità personali.
Solo i governi liberali del secondo Ottocento riuscirono in ciò, pur fallendo miseramente in moltissime occasioni. Quasi nessuno giudicava la corruzione come un male supremo. Il motivo è da ricercare nel pensiero consuetudinario d’antico regime. Per prima cosa, non dimentichiamo come re e regine non dovessero rendere conto proprio a nessuno (tranne in Inghilterra, dove però prevaricazioni non mancarono) dell’operato in materia economica. Anzi, le teste coronate d’Europa retribuivano in modo generoso, a dir poco, i fedelissimi in cambio del servigio incondizionato. Ergo: questi uomini governavano per grazia reale, laddove la stessa l’avesse permesso.
Personaggi, questi, provenienti puntualmente dalle classi più agiate della società. In quanto nobili, dovevano mantenere un regime di vita alto. Al contempo dovevano permettere che amici e familiari vivessero tra gli agi degni del loro lignaggio. Capite bene quanto potessero sembrare esorbitanti i costi di una simile esistenza. Dunque si spendeva molto a danno di altri, non solo per avidità ma anche per implicazioni dovute alla carica ricoperta.
Come ampliamente anticipato, un Seicento definito “secolo corrotto” presentò qualche scandalo dalla portata notevole. Casi se non unici, rari, perché la giustizia intervenne e non era scontato lo facesse. Parto con l’Inghilterra, che qualche riga più sopra ho nominato. Un nome ed un titolo: George Villiers, primo duca di Buckingham. De facto colui che detenne le redini del regno durante gli ultimi anni di Giacomo I e, secondo il parere di molti, il vero movente dietro la futura guerra civile che portò all’esperienza repubblicana di Cromwell.
Favoritissimo di Giacomo, non meno per il successore Carlo I, il duca di Buckingham mise da parte un gruzzoletto (si fa per dire) niente male. Si pensa che negli anni ’20 del XVII secolo fosse addirittura più ricco del re. Fortune “guadagnate” sottobanco, un po’ facendo valere la propria posizione per scopo di lucro e un po’ creando da nulla tributi atti solo a rimpolpare le sue tasche. Nel 1621 il parlamento chiese ed ottenne a suo carico un’inchiesta giudiziaria. Da questa il nobile ne uscì praticamente pulito. Anzi, riversò l’attenzione dei magistrati su un tale di nome Francis Bacon, Francesco Bacone per intenderci. George Villiers morì assassinato sette anni dopo ma anche da morto il suo onore non venne scalfito, nonostante i malaffari portatori della sua firma che scossero e non poco le finanze del regno.
Altro caso spinoso che qui non può certamente mancare è quello del Duca di Lerma, ministro plenipotenziario di Filippo III di Spagna. Sì, nella Spagna del Siglo de Oro vi era chi, come Francisco de Sandoval y Rojas, politico, cardinale e valido (favorito) del re, riuscì ad ingrossare il proprio patrimonio personale lucrando grazie a malversazioni, frodi fiscali, nepotismo e abusi di potere sotto la luce del sole. L’avreste mai detto? Eclatante fu il trasloco della corte da Madrid a Valladolid, operazione da lui orchestrata e per la quale guadagnò tangenti dal valore inestimabile. Persino il figlio, il duca di Uceda, seguì passo passo le orme del padre, per poi cadere in disgrazia sotto il re Filippo IV. Quest’ultimo, sospinto dal nuovo valido, il conte di Olivares, costrinse la casata Sandoval y Rojas a pagare per quanto sottratto: 72 mila ducati d’oro all’anno più tutti gli arretrati per 20 anni.
Sulla Francia neppure mi soffermo, anche se fu l’esempio più noto e quello che maggiormente viene citato in causa quando si parla di Seicento e corruzione. Il Re Sole, Mazzarino, Versailles. Ci siamo già soffermati sul tema e non ritengo sia necessario approfondire in questa sede. Quel che resta dunque è una flaccida e forse scontata risposta al quesito iniziale. Sì, per molti versi il Seicento fu il secolo corrotto per antonomasia. Non che in passato la pratica non esistesse o fosse meno comune, ma durante il secolo decimosettimo raggiunse apici insostenibili. Le vette della vergogna e dell’indignazione che cento anni più tardi portarono i popoli a sollevarsi. Eppure gli assolutismi non morirono, cambiarono forma, si adattarono. L’illecito seguì lo stesso corso, come una pulce attaccata sul dorso di un cane che da rabbioso diventa rognoso. Pur sempre di un cane malato si parla.