Mantengo la promessa fatta nell’articolo dedicato a John Hawkwood, Giovanni Acuto per tutti noi, e vi porto quest’oggi alla scoperta di un episodio cupo che riguarda la nostra penisola, nello specifico la città di Cesena. È la storia di quando, nel tardo inverno del 1377, la città romagnola andò incontro ad un destino infausto e crudele, reso amaramente concreto dalle affilate lame dei mercenari al soldo del papa. Metà della popolazione cesenate, secondo diverse fonti coeve, perì in quello che è passato alla storia come “Sacco dei Bretoni“, strage civile fra le più grandi e brutali dell’intero evo di mezzo.
Bisogna fare un passo indietro di due anni per meglio comprendere il contesto. Nel 1375 era nell’aria un imminente ritorno del papa in Italia dopo il soggiorno avignonese. Un simile evento necessitava di “preparativi” adeguati. Così i vari legati pontifici iniziarono ad operare affinché i territori un tempo assoggettati al volere papale e ora svincolati da esso, tornassero (con le buone, ma se doveroso, anche con le cattive) sotto l’autorità romana. L’anno già citato portava con sé venti bellicosi. E guerra fu tra lo Stato Pontificio e alcune delle più importanti città del centro Italia, una su tutte: Firenze.
Accadde che Firenze, scarna di approvvigionamenti, chiese delle forniture di grano a Bologna, formalmente città papale ma che godeva di un certo grado di autonomia. Vigeva su Bologna l’autorità del cardinale Guglielmo di Noellet, il quale rispose picche a Firenze, suscitando più di qualche malumore, dentro e fuori le mura. Infatti i bolognesi cacciarono il legato nel 1376 e dichiararono l’entrata in guerra del capoluogo emiliano al fianco della lega antipapale.
L’allora papa era Gregorio XI che, preso da un momento d’ira, affidò al cardinale Roberto di Ginevra il compito di schiacciare l’insolente Bologna. Per facilitare la riuscita del compito, il papa dotò il cardinale di una prepotente forza mercenaria, nota per la sua ferocia. Era la Compagnia dei Bretoni guidata da Jean de Malestroit.
Nel 1376 mercenari bretoni e inglesi posero d’assedio Bologna, ma non riportarono chissà quale vittoria. Anzi, convincendosi dell’insuccesso, andarono a svernare in Romagna. E dove passare l’inverno se non nella ricchissima Cesena, perla romagnola fedele all’autorità pontificia e in mano alla famiglia Malatesta? Qualcosa, più di qualcosa, iniziò a puzzare fin da subito, e non solo ad avviso della gente comune. Galeotto Malatesta, uomo forte di Cesena, quando seppe dell’arrivo delle truppe mercenarie e del Cardinale di Ginevra, girò i tacchi e se ne andò a Rimini. Eccessiva premura o accurata previsione, difficile dirlo…
In quel di Cesena il 2 febbraio 1377 giunsero solo gli uomini della Compagnia dei Bretoni. Subito scoppiarono dei tumulti in città, innescati – si dice – da battibecchi fra i mercenari e alcuni macellai. I disordini non furono roba da poco, perché ci scappò il morto e perché il cardinale Roberto di Ginevra dovette serrarsi dentro la cittadella pur di scampare al linciaggio.
Le Cronache malatestiane, scritte fra XIV e XV secolo, descrivono in questi termini l’antefatto del Sacco dei Bretoni:
«Già sul finire dei 1.376 le milizie di Roberto occuparono le campagne cesenati facendo razzie e privando la popolazione di ogni mezzo di sostentamento. I contadini ridotti alla fame iniziarono ad avvicinarsi al centro urbano, nella speranza di trovare cibo, ma senza particolare fortuna. Devastato il forense, i bretoni fecero ingresso in città continuando le ruberie iniziate fuori dalle mura; divorando ogni cosa, sforzando uomini e donne in maniera da superare ogni limite d’umana sofferenza. I bretoni pretendevano asportar generi delle botteghe senza pagare, molestando le donne sotto gli occhi dei padri, dei fratelli, dei mariti, dei fidanzati».
Il porporato chiese allora ai capitani di ventura bivaccati a Faenza di sopraggiungere e risolvere il problema; sul “come” diede carta bianca. Chi erano dunque questi capitani di ventura stanziati a Faenza? Rispondevano al nome di Giovanni Acuto e Alberico da Barbiano. Essi, che non facevano niente per niente (ci fu evidentemente la promessa dell’aumento della condotta in caso di pronto intervento), accorsero nella città romagnola e “sedarono” la ribellione dei cesenati. Ora, il verbo “sedare” non rende giustizia a ciò che realmente accadde e su cui, purtroppo, poco si è scritto – ma tanto si è tramandato per via orale.
La storiografia si riferisce all’episodio col nome “Sacco dei Bretoni”, ma sarebbe più idoneo definirlo un massacro, un eccidio. Le truppe dell’Acuto entrarono in città il 3 febbraio e si unirono ai bretoni che nel frattempo erano uscite dalla cittadella. Fu una carneficina senza eguali. Tre giorni interi di violenza incontrollata. Dal 3 al 5 febbraio Cesena perse più della metà della sua popolazione (stimata per eccesso a 8.000 cittadini): si parla di un numero che va dalle 3.000 alle 5.000 vittime. Chi sopravvisse, riuscì nell’impresa perché fuggì nel contado o nelle città limitrofe, vedasi Rimini, Cesenatico o Cervia.
Coloro che si rifugiarono nelle campagne tuttavia cercarono presto vendetta. Fu così che nei giorni a seguire si verificarono atti ostili della popolazione civile nei confronti dei mercenari di passaggio. Si sentiva di imboscate e tafferugli ogni singolo giorno. A Roberto di Ginevra, futuro antipapa Clemente VII, i contemporanei affibbiarono il lugubre soprannome di “macellator caesenatum“. Il cardinale rimase in città fino ad agosto, quando l’abbandonò in macerie per recarsi con intenti tutt’altro che pacifici presso Faenza. Da sottolineare l’impegno di Firenze nel denunciare – con evidenti fini propagandistici – il “Sacco dei Bretoni” in tutte le corti d’Italia e d’Europa. Sdegno e disgusto furono sentimenti captati ovunque, ma non servirono a ricostruire una città incenerita, la quale impiegò decenni per riprendersi da quell’animalesca contingenza.