Sono rimasto stregato, varcando il portone della quarta sala, quella “degli Imperatori”. Stregato nell’osservare una delle opere più note all’interno della Galleria Borghese; tutt’attorno si ergevano fieri i busti di svariati imperatori, ai quali sinceramente ho fatto poco caso, perché di fronte mi son ritrovato un capolavoro di marmo, che in realtà ho associato al velluto. Basta vedere una singola fotografia del Ratto di Proserpina per essere solo parzialmente d’accordo con la mia visione.
Nessuno può rendere quelle linee, quelle curve, quel senso “carnale” così vivido attraverso la lavorazione del marmo. Nessuno, è vero, ma nessuno non è Bernini. A soli 23 anni Gian Lorenzo Bernini lavora su commissione per il cardinale Scipione Borghese. Giovane l’età, ma la tecnica, l’audacia creativa, la raffinatezza, lasciano intendere di aver a che fare con un artista navigato. Cardinal Borghese lo sa, infatti il Ratto di Proserpina non è la prima opera che lo scalpello napoletano gli dedica. La priorità appartiene al gruppo scultoreo Enea, Anchise e Ascanio. Perché non replicare quindi?
Quindi nel 1621 Bernini dà il via alle proverbiali danze: il soggetto deciso è ancora una volta mitologico. La bellissima Proserpina, figlia di Cerere, quest’ultima divinità materna della terra e della fertilità, era solita trascorrere buona parte del suo tempo tra i boschi. Al contrario Plutone, dio regnante negli inferi, pativa la solitudine in quel posto così buio e inospitale. Nessuna donna aveva mai espresso la volontà di abbandonare la luce per sposare il re dell’Averno. Un giorno tale risentimento pervase l’animo di Plutone, il quale si decise a rapire Proserpina.
Il ratto fece cadere nella disperazione la dea Cerere, la quale chiese aiuto a Giove, supremo signore dell’Olimpo. Quest’ultimo convinse il fratello Plutone dello sbaglio, ma a quel punto rilasciare Proserpina era impossibile. Ella aveva ingerito chicchi di melograno, tipico cibo dei morti. L’oltretomba diventava così la sua casa e Plutone suo marito. Si giunse comunque ad un accordo: per sei mesi l’anno Proserpina avrebbe potuto raggiungere sua madre in superficie, ma per gli altri sei sarebbe rimasta accanto al suo nuovo marito. Così i romani si spiegavano il ciclico trascorrere delle stagioni. I mesi caldi della primavera e dell’estate corrispondevano all’ascesa della fanciulla, quelli dell’autunno e dell’inverno alla sua discesa.
Ora, Bernini decide nel già citato 1621 di rappresentare l’atto più crudo dell’intero mito, quello del rapimento. E lasciatemelo dire, lo fa come nessun altro potrebbe farlo. La muscolosa divinità, afferra con prepotenza Proserpina con il chiaro intento di condurla nella sua oscura casa. La giovine non ci sta e si dimena, ma il suo destino è segnato. A riprova dell’immutabile fato, scorgo Cerbero ai piedi del gruppo marmoreo, il quale è garante della volontà del suo signore. Ma io sono ancora lì, imbambolato come ci si imbambola a 7 anni di fronte al gioco che tanto si desidera. Perché guardo la forzuta mano di Plutone stringere la coscia di Proserpina, ma quella stretta è così “reale” da farmi dimenticare la natura marmorea della scultura.
La mia intenzione non è assolutamente quella di elencare le innovazioni artistiche che il Ratto di Proserpina del Bernini esprime in tutta la sua magnificenza. Primo, perché non sono adatto nel farlo, non è di mia competenza e lì fuori ci sono sicuramente persone in grado di dare spiegazioni dettagliate a riguardo. Secondo, non voglio farlo. Queste parole, scritte con un po’ d’eccitante frenesia, esprimono le forti, fortissime sensazioni che ho provato guardando un qualcosa di così crudele, ma anche così armonioso. Il contrasto mi ha sedotto, forse facendomi sembrare scemo, ma io ve lo giuro: ho visto Bernini trasformare il marmo in velluto.