La Spagna del Settecento è una nazione, prima ancora che un impero, in profondo mutamento. Dal riformismo amministrativo, burocratico, statale al rinnovato dirigismo borbonico, distante (almeno nelle idee) dal modus imperandi asburgico, che dalle parti di Madrid, al momento in cui fermo la mia narrazione, mancava più o meno da un trentennio (Guerra di Successione Spagnola, 1701-1714). Per l’appunto, un trentennio per arrivare alla primavera 1741, momento cardine, quasi simbolico, della resilienza ispanica di fronte alle difficoltà, queste veleggianti la croce di San Giorgio. Dal marzo al maggio del 1741 andò in scena l’assedio di Cartagena de Indias e con esso il miracolo spagnolo, reso possibile da congiunture favorevoli e da un comando all’altezza, seppur letteralmente monco.
Prima però un po’ di consueto contesto. I Borbone di Spagna, volgendo lo sguardo ad ovest, stavano cercando in primo luogo di razionalizzare la suddivisione amministrativa dei territori d’oltremare (in tal senso avverrà la spartizione tra Vicereame della Nuova Granada e il già esistente Vicereame del Perù, ovvero la precedente totalità delle terre spagnole in Sudamerica). Allo stesso tempo, la corona aveva tutta l’intenzione di preservare il controllo dei mari, nonostante la crescente pressione francese e soprattutto inglese. Per farlo, bisognava riunire tutte le flotte in un’unica grande Real Armada. Cosa che avverrà nel 1748 ma che già era in cantiere da qualche anno. Questi e molti altri cambiamenti rendevano potenzialmente vulnerabile l’impero, esposto alle mire espansionistiche e divaricanti di Londra.
In particolare, tali mire avevano molto a che fare con una specifica clausola redatta in occasione del Trattato di Utrecht (1713). Questa favoriva e non poco gli inglesi, possessori esclusivi del diritto di importazione degli schiavi nei territori spagnoli del Sudamerica per 30 anni (Asientos). I mercantili britannici sfruttarono oltre il dovuto questa clausola, sfociando spesso in attività ostili all’autorità borbonica. Le tensioni che si vennero a creare strabordarono in un conflitto armato nel 1739, che si protrarrà fino al 1748. Sarà la cosiddetta Guerra dell’Asiento o Guerra dell’orecchio di Jenkins. Come da spartito, le prime operazioni navali e terrestri videro vincitori gli inglesi, guidati dall’ammiraglio Edward Vernon. I suoi ufficiali presero coraggio, perché a neppure due anni dallo scoppio delle ostilità, si posero come obiettivo la completa conquista del Vicereame della Nuova Granada. Tradotto: gli allora sudditi di Giorgio II volevano mangiarsi metà America meridionale. Poco ambiziosi…
Una vittoria totale per gli inglesi non poteva non passare per Cartagena de Indias, il centro nevralgico per il dominio del Mar dei Caraibi. Controllare la città situata sull’odierna costa settentrionale colombiana significava fare terno al lotto, ma in termini commerciali-strategici. Per Cartagena transitavano circa l’80% delle merci che compivano la tratta Indie-penisola iberica (o viceversa). Forse “merci” è un termine troppo generico che non lascia intendere ai meno informati la portata delle mercanzie. I porti di Cartagena de Indias erano ricolmi dei metalli preziosi stoccati in attesa di partire verso l’Europa, oro e argento (ma non solo) che provenivano dalle miniere peruviane e boliviane. Se Madrid avesse perso il controllo di quel territorio, quasi certamente l’impero avrebbe anticipato di un secolo e mezzo la sua naturale dipartita.
Gli spagnoli, che scemi non erano, tra Cinque e Seicento avevano fortificato fino all’osso la variegata baia di Cartagena (che potete ammirare nella cartina poco più sopra). Bastioni, fortini, batterie difensive a protezione degli sbocchi, barriere naturali, sulla carta espugnare il porto era un’impresa titanica. Vero solo sulla carta, se non fosse per la cronica disorganizzazione militare del quale l’impero spagnolo soffriva da tempo immemore. L’esempio lampante di questa confusione decisionale era rappresentata dall’ambiguità dei ruoli ricoperti dal governatore della regione, il viceré Sebastian de Eslava e dal comando militare, affidato all’espertissimo ammiraglio Blas de Lezo. Il primo inetto e fatalmente attendista, il secondo carismatico e intraprendente, nonché eroe vittorioso di un numero indefinito di battaglie. I due finivano spesso per calpestarsi i piedi, per intenderci.
Da marzo a maggio 1741, 15.000 uomini, 29 navi di linea, 22 fregate e 135 imbarcazioni di trasporto posero in assedio le fortezze di Cartagena de Indias. Gli spagnoli – ovvero dai 3.000 ai 4.000 uomini, male armati e mal disposti nello scacchiere tattico – dopo un’iniziale ritirata verso i forti più arretrati, seppero resistere furiosamente, anche grazie al genio militare del Mediohombre (mezz’uomo, per via di tutti i traumi fisici riportati nei precedenti episodi bellici) Blas de Lezo. Vernon cantò vittoria troppo presto (a fine marzo aveva già avvisato Londra della presa di Cartagena) e pagò le conseguenze della sua presunzione. Il destino, imbizzarrito dalla tracotanza britannica, si accanì sotto forma di febbre malarica sulle truppe di Sua Maestà re Giorgio II. Una decimazione spaventosa che nel maggio suggerì la ritirata inglese dalla baia.
Sulle spalle di poche centinaia (molti dei quali nativi e “negros“) gravò il peso di un impero decadente, ma ancora vivo. La malaria si portò via anche il comandante ed eroe Blas de Lezo y Olavarrieta, nel settembre dello stesso anno. Il suo nome resterà impresso nella memoria degli spagnoli. Gesta memorabili, le sue, per sempre associate alla resistenza insperata, eppure vittoriosa. Basta crederci (e sperare nella malaria…).