Un inglese lo chiamerà cinicamente The Great Game, il “Grande Gioco“, mentre un russo preferirà il poetico Турниры теней (Turniry Teney), letteralmente “Torneo delle ombre”. Quale che sia il termine scelto, la storia conserva traccia evidente del conflitto infuocato tra impero britannico e autocrazia zarista per l’egemonia sull’Asia centrale durante tutto il XIX secolo. Una guerra mai dichiarata, combattuta a suon di dispacci minacciosi, spie, diplomazia nascosta, accordi e smentite, tradimenti e scomode sorprese. Sfruttando il corpus vignettistico del tempo, si può affermare non a torto come per tutto l’Ottocento un orso e un leone, entrambi affamati di terre e potere, abbiano lottato con il dichiarato intento di sbranare la preda centrasiatica.
Ogni filo di questa complessa trama origina dal contesto europeo post napoleonico. Da alleati (con riserva, vedasi le ambizioni espansionistiche di Paolo I) a nemici: Inghilterra e Russia non si risparmiarono per il controllo diretto degli immensi territori asiatici, i quali fungevano da fronte tra l’India britannica e il confine meridionale dell’Impero zarista. Gli obiettivi delle parti in gioco erano diversi, eppure convergenti. La Russia mirava ad un’espansione in direzione est e soprattutto verso sud, all’eterna ricerca di uno sbocco commerciale sull’Oceano Indiano. Londra, consapevole delle mire russe, cercò di estendere (con penna e carta, talvolta col fucile) la propria influenza verso gli emirati afghani e i khanati del Turkestan. Delineate le rispettive finalità, citati i vari “campi di battaglia”, non resta che addentrarci pienamente nel cuore della vicenda.
Il cuore, appunto, delle trame geopolitiche occidentali divenne allora l’Afghanistan. Se oggi conosciamo quella terra arida come “cimitero degli imperi” un motivo dovrà pur esserci. Se lo zar si fosse impossessato della regione afghana, avrebbe avuto strada spianata per la successiva avanzata fino alle porte settentrionali dell’India. La regina Vittoria non poteva permettere ciò e con tale pretesto ordinò ai suoi generali di intraprendere una campagna militare. Scoppiò quindi la prima guerra anglo-afghana (1839-1842). Nell’ottica del Grande Gioco (termine coniato da uno scrittore inglese negli anni ’20 dell’Ottocento, ma in voga ai primordi del secolo successivo) l’impresa britannica in Afghanistan si risolse in un immenso, sconfinato buco nell’acqua. Il ritiro delle truppe di Sua Maestà da Kabul infuse coraggio e sfacciataggine nella strategia zarista.
Così le truppe russe si ammassarono al confine meridionale, minacciando i suddetti khanati di Khiva e Buchara. Tashkent cadde nel 1864; Samarcanda nel 1868 senza neppure opporre resistenza. Buchara si concesse il medesimo anno a seguito di brevi trattative. L’orso aveva guadagnato terreno fino alle rive dell’Amu Darya, il fiume più lungo dell’Asia centrale, oltre il quale, procedendo verso sud, si penetrava nelle gole montane dell’Afghanistan.
Come risposero gli inglesi? Beh, ovviamente invadendo nuovamente quella terra che quarant’anni prima li avevi rigurgitati violentemente. 40.000 britannici diedero il via alle danze, iniziò così la seconda guerra anglo-afghana (1878-1880). Questa volta l’esito finale della campagna arrise alle truppe di Sua Maestà. Sulla carta l’emirato conservava la sua indipendenza, l’emiro Abdur Rahman Khan restava sul trono, ma la politica estera del paese diveniva prerogativa inglese. Lo smacco fu per la Russia che reagì, reclamando territori teoricamente afghani (inglesi) a nord del fiume Amu Darya.
Negli anni ’80 del XIX secolo si rischiò davvero il collasso delle relazioni anglo-russe. La guerra pareva imminente, la situazione era scottante e nessuno sapeva come porvi rimedio. Alla fine la diplomazia britannica non ritenne saggio entrare in ostilità con lo zar per “poca sabbia e tanta roccia”. Seguì un informale riconoscimento reciproco delle rispettive conquiste territoriali. Nel decennio successivo lo scenario si stabilizzò, eccezion fatta per qualche scaramuccia nel Kashmir. Lo stallo in Asia centrale convinse i contendenti a spostare il loro focus più a est. Il Grande Gioco continuava in prossimità del Celeste Impero cinese.
Londra si appropriò del Tibet, conquistando Lhasa nel 1904 e costringendo il XIII Dalai Lama all’esilio. Fu un’azione preventiva, giustificata dai rapporti delle spie inglesi. Quest’ultime segnalavano relazioni segrete tra autorità tibetane e inviati fedeli allo zar Nicola II. Ma quelli erano gli anni della sonante disfatta russa contro il Giappone, delle rivolte interne. Casa Romanov non poteva di certo permettersi il lusso di pensare alla Mongolia o al Tibet. In realtà entrambi i paesi avevano un discreto numero di gatte da pelare. Sembrava arrivato il momento di un patto bilaterale, chiaro nelle clausole e duraturo.
Il 31 agosto del 1907 le due delegazioni interessate, riunitesi a San Pietroburgo, firmarono l’Accordo anglo-russo per l’Asia (anche noto come entente anglo-russa). Il trattato sancì il reciproco riconoscimento delle sfere d’influenza in Asia, pose fine ai contrasti tra le due potenze e, cosa più importante se vista col senno di poi, gettò le basi costituenti la Triplice Intesa, la quale accolse a braccia aperta quella Francia da cui tutto era partito un secolo prima. Terminò in quella frizzante estate novecentesca la Danza delle ombre, il Grande Gioco. L’orso e il leone non ritrassero gli artigli, semplicemente li rivolsero altrove.