Poco meno di settant’anni durò il Governo dei Nove a Siena, dal 1287 al 1355. Decenni in cui la Respublica Senensis raggiunse il proprio apogeo economico, finanziario, politico e militare. Un rispolvero in grande stile per una città che di stile ne ha sempre saputo qualcosa. A cavallo tra Due e Trecento Siena divenne un attore preponderante a livello internazionale, oltrepassando i limiti imposti dal regionalismo comunale. Se fu in grado di farlo, il merito fu senza ombra di dubbio di una magistratura “speciale”, sulla quale oggi voglio spendere due parole.
Questa magistratura, come accennato tra titolo e introduzione, prendeva il nome di Governo dei Nove. Gli estremi cronologici entro i quali inquadriamo l’intera vicenda ci aiutano a capire meglio come e perché si affermò un tale governo, che si fa subito a definire popolare. E in effetti fu il popolo senese, dismessi i panni del ghibellinismo – tirati a lucido nell’unica gioia effimera di Montaperti – e indossati quelli del guelfismo, a optare per una simile modalità di direzione, totalmente incentrata sugli interessi del comune e della città di Siena.
I Nove altro non erano che i membri della giunta della Repubblica. Essi provenivano dal ceto medio, un amplissimo strato sociale in quel di Siena, dove a farla da padrone vi erano principalmente commercianti e artigiani. Badate bene, queste erano persone che andavano dritte al sodo. La classe dirigente che per settant’anni determinò le sorti di Siena era dotata di spirito critico, concretezza, lungimiranza politica e, ovviamente, economica-bancaria. Il loro interesse era l’interesse della comunità senese nel suo intero. Non è mica un caso che sui documenti contrassegnati dal Governo dei Nove, quest’ultimi fossero definiti “governatori e difenditori del Comune e del popolo di Siena”.
Il primo esecutivo del periodo del “Buon governo” rappresentò chiaramente un caso eccezionale. Figure istituzionali quali il Podestà e il Capitano del Popolo (che ricordiamolo erano forestieri, extra moenia come dicono quelli bravi) scelsero sei uomini per la commissione ristretta. A questi sei sarebbe spettato il compito di eleggerne altri tre su base territoriale (ognuno per ogni suddivisione amministrativa), così da andare a comporre i Nove, i quali avrebbero svolto le loro mansioni nell’arco di due mesi, tempo limite dopo il quale la carica decadeva. Se il lasso di tempo vi sembra insufficiente, attendete un attimo perché tra poco rivedrete il vostro giudizio in merito. Per evitare conflitti d’interessi o casi di nepotismo, si adottò la regola per la quale parenti, soci in affari o affini non potessero governare nella stessa giunta.
Tale sistema durò fino al 1318, quando la giunta iniziò ad avvalersi di un elenco di “cittadini mirabili” dai quali selezionava i futuri governanti. Ma torniamo desso alla particolare durata bimestrale dell’incarico. I Nove dovevano alloggiare per l’intera durata del mandato amministrativo all’interno del Palazzo Comunale. Concentrate la vostra attenzione sul verbo “dovere” perché è tutto lì il succo del discorso. I membri della magistratura potevano uscire dal palazzo solo durante visite ufficiali; inoltre vivevano distaccati dalle loro famiglie. Una sorta di “reclusione” che aveva lo scopo di limitare al minimo le distrazioni e ottimizzare gli sforzi per il bene comune. Ovviamente queste persone non potevano vivere due mesi della loro vita senza mai prendere una boccata d’aria. Per questo venne realizzata la bellissima Loggia dei Nove, che si affaccia sulla campagna senese.
Ma in tutto questo i più abbienti della società senese, aristocratici e non solo, cosa facevano? Il Governo dei Nove era una magistratura a loro preclusa, ma non per questo essi erano completamente estromessi dalle questioni di governo. Ai nobili ci si rivolgeva per consulenze, così come si permetteva loro la partecipazione alla giunta comunale. Nonostante il Buon governo fosse essenzialmente popolare, sussistevano i privilegi nobiliari. Solo per citarne uno: quello sul miglior trattamento in caso di prigionia.
L’altra componente della società esclusa dagli affari di stato era quella più povera. Eppure il governo novesco intendeva promuovere il progresso politico, sociale e culturale anche negli ambienti più umili. Per farlo affidò il compito di realizzare un documento speciale ad un notaio di fiducia: il Costituto di Siena, emanato dal comune nel 1310. Un testo completamente in volgare, scritto a caratteri giganti (così da permetterne la lettura anche ai meno avvezzi), in cui si enunciavano le norme statuarie e civili vigenti nella Repubblica di Siena. Mai prima di allora si era redatto in nessuna città italiana o europea un simile testo. Il Costituto si prefigurava come uno strumento utile a far comprendere al volgo più spicciolo cosa fosse un abuso del potere nei loro confronti e cosa invece no.
Fu per la Repubblica di Siena una rivoluzione non solo in senso socio-economico, ma anche artistico-urbanistico. Venne realizzato il Palazzo Pubblico, lo splendido edificio che campeggia su Piazza del Campo (anch’essa profondamente rinnovata tra XIII e XIV secolo). Si completò il Duomo e si perfezionò la cinta muraria. Siena fu abbellita da opere recanti la firma di Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti. Di quest’ultimo è famosissimo il ciclo di affreschi noto come Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo.
Quelli del Buon governo si rivelarono per Siena anni di espansionismo territoriale, soprattutto in direzione sud e sud-ovest. Ciò fu possibile per via di un riavvicinamento con Firenze, con la quale adesso era stretta nel guelfismo. La Repubblica di Siena soddisfò persino la sua secolare ricerca di uno sbocco sul mare, ottenendo il porto di Talamone sul Tirreno – impresa tanto ambiziosa quanto vana. Oltre alla vicinanza di Firenze, Siena poté cullarsi sui buoni rapporti diplomatici stabili con la Francia e con gli angioini.
All’apogeo seguì un rapido e forse inevitabile declino. Fattori quali la peste, l’abbattimento del tasso demografico, l’instabilità economica che si tramutò in precarietà decisionale, guerre, saccheggi, incendi, un marasma di contrattempi che decretarono nel 1355 la fine del Governo dei Nove. Seguì la presa del potere da parte di un’oligarchia che, seppur ostile ad alcuni degli attori istituzionali della tradizione (il Podestà, il Capitano del Popolo, il Capitano di Guerra), mantenne quasi inalterata l’impalcatura amministrativa del periodo novesco. Caratteristica questa che resisterà fino alla metà del Cinquecento, quando la contrapposizione Siena-Firenze si risolverà a favore dello stato mediceo.