Ismail Enver, uno dei Tre Pascià, protagonista della rivoluzione dei Giovani Turchi e Ministro della Guerra ottomano, sulla scomoda questione dei greci in Anatolia scrisse ad un suo collaboratore tedesco di “voler risolvere il problema greco allo stesso modo di come aveva risolto quello armeno”. Parole datate al 1915, quando la macchina ottomana della morte era già avviata all’incirca da un anno. Eppure gli orrori, la tragedia e il sangue versato sarebbero state delle tristi consuetudini per una minoranza stabilitasi da secoli sulla penisola anatolica e adesso, in tempi di guerra, considerati traditori in combutta col nemico. Una semplice premessa per un massacro indicibile, spesso dimenticato o addirittura ignorato: questo fu il Genocidio dei greci del Ponto.
Una minoranza etnica, linguistica e religiosa. Ci si potrebbe limitare a questa breve descrizione per inquadrare i cosiddetti greci del Ponto – anche noti come Pontici o greci del Mar Nero. La loro storia affondava radici in tempi assai remoti, arrivando al VI secolo a.C. Epoca in cui le terre della Tracia, della Tessaglia, così come quelle peloponnesiache (solo per citare alcune delle storiche regioni della Grecia classica) divennero fin troppo piccole e ristrette per una popolazione in rapida crescita e costantemente alla ricerca di nuove opportunità economiche e commerciali. Fu così che coloni ellenici emigrarono, tanto verso l’occidente mediterraneo (Magna Grecia, coste africane nord-occidentali come quelle francesi o spagnole) quanto verso oriente, attraversando l’Egeo o addentrandosi nel Mar Nero. In quest’area fondarono città di cui oggi conosciamo bene il nome: Trebisonda, Smirne, Efeso, Alicarnasso, Odessa, Sebastopoli e via discorrendo.
Città fondate da greci, certamente, ma abitate fin dai primi momenti da un mix multietnico di popoli. Col trascorrere dei secoli, queste genti osservarono il mutare del quadro politico e militare, promettendo fedeltà a questo o a quell’altro impero. Persiani, regni ellenistici, romani, bizantini ed infine ottomani. Proprio la Sublime Porta, un tempo sinonimo di opportunità, autonomia confessionale (vedasi il sistema delle Millet) e tolleranza (seppur nei limiti dell’ordinario per i tempi presi in considerazione), quando venne travolta dal dilagante fervore nazionalista, finì per sgretolarsi, rinnegando le fondamenta pluraliste sulle quali aveva costruito la sua stessa e oramai passata grandezza. Il nazionalismo, mescolato alla diffidenza e al terrore di un possibile tradimento, causarono il Genocidio dei greci del Ponto.
Non pochi Pontici, soprattutto tra XVIII e XIX secolo, captando una sempre più asfissiante ostilità nei loro confronti, emigrarono altrove (prevalentemente Impero zarista). Molti però rimasero, dando vita a comunità culturalmente vivaci ed economicamente floride. Le città a maggioranza pontica (o comunque contraddistinte da una fortissima minoranza greca) divennero centri trainanti dell’economia tardo-ottomana. Vero anche che queste comunità, per le stesse ragioni di cui sopra, genericamente finirono per isolarsi. Suddetto fattore contribuì alla discriminazione perpetrata nei loro confronti.
Dando uno sguardo alla situazione dell’impero nei primi anni del XX secolo, si può capire ancora meglio (ma non condividere o giustificare, sia chiaro) la natura di quel gesto folle e sconsiderato. Dopo le guerre balcaniche, Costantinopoli perse praticamente tutti – o quasi – i suoi territori europei a favore di nazioni cristiane. Di converso si infiammò l’odio xenofobo. Esso colpì le minoranze greco-ortodosse come gli Armeni, gli Assiri (o Siriaci) e, come detto fin qui, i greci del Ponto. I vertici ottomani iniziano ad occuparsi della questione già prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Risalgono al 1913 le prime discussioni sulla gravosa “questione greca“. Nel 1916 l’animosità, il rancore e l’intolleranza subiscono un’impennata senza pari. Mentre le truppe dello zar conquistano Trebisonda (lasciandola poco dopo, vista la situazione interna ormai fuori controllo) lo Stato Maggiore ottomano su consiglio tedesco ordina la deportazione dei greco-ortodossi nelle aride steppe dell’Asia Minore.
Come per gli Armeni, anche per i greci del Ponto si costituiscono i “Battaglioni di lavoro“. Uomini, donne, bambini ed anziani, costretti a lavorare in condizioni disumane. Il compito è costruire ferrovie, infrastrutture strategiche o sputare sangue nelle miniere. Nell’arco di pochi anni ne muoiono a migliaia, anzi, decine di migliaia. Nel 1918 un funzionario del Foreign Office britannico, asserisce in un resoconto inviato a Londra come: “più di 500.000 greci siano stati deportati, di cui relativamente pochi sono sopravvissuti”. Le stime differiscono a seconda delle fonti, ma fino al 1918, quasi certamente più di 250.000 greci del Ponto erano andati incontro ad una morte spregevole. L’orrore non termina con la guerra.
Quando nel 1919 a Parigi le nazioni vincitrici iniziano a pianificare la creazione di una Repubblica del Ponto indipendente dall’autorità sultanale (ufficialmente sollevata nel ’22) o, in alternativa, la formazione di uno stato greco-armeno, a Costantinopoli capiscono di dover agire in fretta per evitare tale disastroso scenario politico e territoriale. Pensano bene quindi di organizzare le ben note “Marce della Morte“, costringendo altre decine di migliaia di Pontici ad inutili sfilate che non hanno altra destinazione se non il trapasso per stenti. Nel frattempo i turco-ottomani radono al suolo intere città, distruggono chiese e quartieri, massacrano a vista d’occhio. Brutalità allo stato puro.
A ciò si aggiunga la Guerra greco-turca (1919-1922). L’intesa promise ad Atene numerosi territori in Anatolia e nell’Egeo in cambio dell’entrata in guerra contro gli imperi centrali. La Grecia accettò ma al termine del conflitto, francesi e soprattutto britannici tentarono di rimangiarsi la parola data. Così il paese, un po’ per motivi ideologici di stampo ultranazionalistico (Megali Idea), un po’ per lo sterminio dei compatrioti (che compatrioti non erano, almeno secondo gli ellenici “puri”), invase l’Anatolia occidentale occupando Smirne e spingendosi fino alle porte di Ankara. L’iniziale successo greco lasciò campo all’imponente e folgorante controffensiva turca, marchiata Mustafa Kemal. Oramai per i greci non c’era più speranza e la maggior parte degli sfollati videro in Smirne l’estremo rifugio.
I turchi vi entrarono nel settembre del 1922. I subalterni di Kemal – rappresentanti dal comandante in carica Nureddin Pascià – contravvenendo agli ordini lasciarono che la città e suoi abitanti venissero trucidati, le donne violentate e i bambini deportati. Cosa sia significato in termini numerici, nessuno può dirlo con certezza. Gli storici, anche per via di una documentazione inesistente o comunque scarsamente probativa, si soffermano su stime generiche. Il Genocidio dei greci del Ponto costò la vita a non meno di 350.000 persone, non più di 700.000. La larga forbice lascia presupporre il dramma di morti non riconosciuti, vittime non identificate, documenti essenziali volontariamente occultati. Per l’odierna Turchia quelle sono considerate vittima di guerra. Sì, vittime di un orrore dimenticato.