«Mentre veniva condotto al patibolo, Agide vide una delle guardie piangere di compassione e gli disse: “Buon uomo, cessa di piangermi; seppur perisco in questo modo infame e ingiusto, sono migliore di questi che mi uccidono”.» – Così Plutarco nella sua Vita di Agide descrive con straordinaria integrità e limpido rispetto la fine di Agide IV, colui che non a torto può essere definito come l’ultimo vero re di Sparta, magari non de iure, ma de facto. È la sua storia, contraddistinta da speranze e delusioni, incessante fedeltà e fatale tradimento, che voglio raccontare nelle righe che seguono.
Prima però è necessario rispolverare il funzionamento del regime diarchico spartano. Fin dai tempi del leggendario re Licurgo, due erano le dinastie reali nella polis lacedemone: Agiadi ed Euripontidi. Entrambe le famiglie esprimevano un sovrano. La coppia di re avrebbe governato Sparta in accordo con la suprema magistratura (l’eforato) e con l’assenso degli Spartiati (cittadini liberi di Sparta aventi diritto al voto). Attenzione adesso ai nomi, perché potrebbe crearsi della confusione. Sul trono Agiade dal 254 a.C. sedeva Leonida II; mentre su quello Euripontide trovava posto Agiade IV nel 245 a.C.
Leonida II aveva conosciuto il lusso e lo sfarzo della corte seleucide, ove trascorse la giovinezza, convogliando a nozze con la figlia del sovrano. Tornato a Sparta con la corona sul capo, Leonida non fece nulla per cambiare una situazione pressoché decadente. Quella città-stato che un tempo faceva della tradizione e della virtù il proprio vanto ora declinava nell’ozio dorato assicurato dalla vittoria su Atene nella Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Il male più grande era rappresentato dalla trasmissione dei beni, un tempo ereditaria, ora legata alla compravendita. In poco tempo i ricchi divennero più ricchi e i poveri caddero nell’indigenza più misera. Concatenazione di eventi che spaccò la società spartana in una maggioranza di nullatenenti e/o schiavi ed una ristrettissima minoranza di Spartiati.
Chi invece salì al potere volenteroso di cambiare le cose, di riformare in toto la propria patria, fu Agide IV. Forte del sostegno popolare, nonché di quello proveniente dall’influente famiglia e dagli amici fidati, il diarca attuò un piano, complesso più nella pratica che nell’ideazione. Esso consisteva in breve nella progressiva esenzione debitoria, lottizzazione e ridistribuzione delle terre a favore di coloro che pur non essendo economicamente rilevanti potevano imbracciare le armi (ragionamento fondamentale per l’antichità). Come nelle più classiche delle contese politiche, la fazione Agiade di Leonida II si contrappose strenuamente alla parte Euripontide, chiaramente riformatrice. L’esito del duello arrise a quest’ultimo partito, il quale (contro il volere di Agide, giovane di buone virtù e contrario alla rivalsa sui vinti) costrinse l’avversario Leonida all’esilio presso Tegea, nell’Arcadia.
Tra il 242 a.C. e il 241 a.C. sembrò il momento adatto per porre in essere la tanto attesa riforma. Tuttavia re Agide dovette fare i conti con un altro ostacolo: suo zio Agesilao. In veste di eforo sostenne il nipote, ma solo per tornaconto personale (intendeva sfruttare le risorse pubbliche per risanare alcuni debiti contratti in precedenza). Saldati i debiti, Agesilao si contrappose alla ridistribuzione delle terre a favore del popolo minuto, anche se in modo subdolo. Agesilao fece leva sull’ascendente che esercitava sul nipote per spedire quest’ultimo in guerra. La Sparta di quegli anni era inquadrata nella Lega Achea ed in costante conflitto con la Lega Etolica.
Agide partecipò alle operazioni belliche, finendo anche per distinguersi. Il tutto mentre in Laconia lo zio esigeva tributi non dovuti e assumeva atteggiamenti arroganti, per non dire prevaricatori. Le gesta di Agesilao infangarono il nome degli Euripontidi e di conseguenza quello del re, lontano dalla sua terra. I nemici politici ebbero gioco facile nel richiamare Leonida dall’esilio e porre la parola fine all’ambizione riformatrice del diarca in guerra. Ovviamente Leonida non perse tempo e si vendicò, spedendo sicari nelle abitazioni dei più fedeli tra gli alleati di Agide. Quest’ultimo, amareggiato e prostrato dinnanzi al suo destino, cercò riparo nell’acropoli di Sparta, precisamente nel tempio dedicato ad Atena Calcieca. L’isolamento durò ben poco, perché Leonida II prima lo trasse in inganno e poi lo fece arrestare. Plutarco e Pausania riportano con estrema chiarezza il dramma degli ultimi istanti di vita del giovane diarca.
L’eforato, vicino a Leonida, intentò un processo farsa ad Agide. Nel 241 a.C. la sentenza fu estrema: morte. Una guardia lo strangolò, togliendo la vita ad un re poco più che venticinquenne, che per onore non oppose resistenza ma porse il collo al laccio. Lo seguirono nel trapasso sia la madre che la nonna, brutalmente uccise dagli sgherri dell’Agiade. Quando il popolo spartano seppe, reagì con disprezzo. Veniva tolta la vita ad un re, considerato sacro ed intoccabile nonostante tutto. Leonida pagò cara l’empietà, ma questa è un’altra storia.