Mitridate VI del Ponto, nato Mitridate Eupatore Dioniso (nelle fonti scritte in greco Μιθριδάτης Εὐπάτωρ Διόνυσος, Mithridátes Eupátor Diónysos) trasformò il Ponto da piccolo reame ammaestrato da Roma a potenza regionale dagli evidenti connotati ellenistici, medesima potenza che tenne sotto scacco la Repubblica Romana per anni, facendo sfigurare alcuni dei suoi più gloriosi e oggettivamente validi generali, vedasi Silla, Lucullo e Pompeo. Nella suo momento di massimo slancio, l’autorità di Mitridate si estendeva su gran parte dell’Anatolia, sul Caucaso, Crimea e diverse zone costiere nei Balcani orientali. Sfruttando abilmente le divisioni insite nell’Urbe, Mitridate quasi interruppe un secolo di espansione irrefrenabile all’apparenza. Per questi ed altri motivi il re del Ponto si fregiò del pesante titolo di Mégas, il Grande, elevandosi a tenace nemico di Roma e generando attorno a sé un numero spropositato di leggende.
Mitridate nacque tra il 135 e il 132 a.C. (le fonti antiche – alle quali spesso ricorrerò nel corso della narrazione – quali Appiano di Alessandria, Memnone di Eraclea e Cassio Dione bisticciano sull’esatta data di nascita) in un mondo ellenistico in rapido declino, assorbito dall’espansionismo romano. Suo padre, Mitridate V Evergete, era a tutti gli effetti l’esempio calzante di quanto detto: sovrano cliente di Roma e docile esecutore della volontà egemonica repubblicana. Seleucidi, Macedonia antigonide ed Egitto tolemaico, ovvero le tre potenze dominanti nel Mediterraneo orientale, apparivano un vago ricordo del passato, oscurato dalla repentina ascesa della Res Publica.
Fu proprio la dissoluzione dell’Impero seleucide a creare un vuoto in Asia Minore. Spazio prontamente occupato nel II secolo a.C. da piccoli potentati autonomi in Cappadocia, Armenia, Galazia, Bitinia e, arroccato sulla sponda meridionale del Mar Nero, il Ponto. Contraddistinto da una costa punteggiata da città greche e un entroterra montuoso, il Ponto era una regione demograficamente variegata e culturalmente florida. Per più di un secolo la dinastia mitridatica, il cui capostipite rispondeva al nome di Mitridate I Ctiste (III a.C. – 266 a.C.), esercitò un forte potere sulla regione. La legittimazione dietro tale dominio non mancava e, a dire il vero, non era neppure così lontana dalla realtà. I vari sovrani del Ponto si dichiaravano diretti discendenti di Dario il Grande, Gran re della Persia achemenide.
Ma se dobbiamo dire le cose così come stanno, fino alla salita al trono del nostro Mitridate VI del Ponto, il regno non è che vantasse chissà quale peso politico-militare nel confuso teatro anatolico. Ecco, appunto, fino all’entrata in scena dell’ottavo re del Ponto, proclamato tale nel 111 a.C.
Fin dai suoi primi passi come sovrano, Mitridate fu oggetto di racconti verosimili, leggende che forse qualcuno di voi già conosce e dicerie di ogni tipo. Non pochi autori coevi lo descrissero come un folle, uno spietato tiranno capace di sterminare il sangue del suo sangue pur di cingersi il capo con la corona del Ponto. Poi come non citare la sua “eredità” più nota; avete mai sentito parlare di mitridatismo? Secondo la Treccani è una “particolare forma di resistenza acquisita a veleni introdotti a dosi dapprima minime e poi progressivamente crescenti”. Il nome deriverebbe dalla consuetudine, tipica di Mitridate, nell’ingerire quantità sub-letali di veleno così da esserne assuefatto e resistere ad eventuali attentati venefici. Collegate suddetto aspetto al titolo dell’articolo e il gioco è fatto…
Al di là delle battute, Mitridate VI del Ponto mise in atto un piano ben congegnato non appena consolidatosi il suo potere. Voleva espandere i suoi domini, questo è chiaro, ma ad ovest gli era impossibile. Vi erano i regni di Bitinia e Cappadocia, ammanicati con Roma e dunque intoccabili. Perché non volgere lo sguardo ad est, dovette pensare Mitridate. Nel giro di pochi anni sconfisse e sottomise le deboli e frammentate tribù tra il Mar Nero, l’Armenia e la Colchide. Così facendo estese i confini del regno fino a toccare le popolazioni scitiche al di qua del fiume Tanais (oggi fiume Don). Egli fu a tutti gli effetti l’artefice di uno pseudo-impero pontico, vasto e ricco di risorse.
Se il processo espansivo ebbe luogo senza dare concreto fastidio a Roma o ai suoi alleati, il Regno del Ponto aveva tuttavia attirato l’attenzione della Repubblica, storicamente restia ad accettare di non essere l’unica potenza influente e preponderante. D’altro canto Mitridate comprese che per mantenere quanto conquistato con la forza delle armi sarebbe giunto, prima o poi, allo scontro con l’Urbe. Insomma, ambo le parti sapevano che di lì a poco la tolleranza reciproca, per quanto sgradita, sarebbe venuta meno a favore della guerra.
Fu così che al tramontare del decennio 90′ e al sorgere del successivo le tensioni sfociarono in aperta ostilità. La storiografia si riferisce a quegli eventi come “guerre mitridatiche“. Un battibecco per procura in Bitinia e Cappadocia si trasformò in uno scontro diretto tra Romani e Mitridate VI del Ponto. I primi sottovalutarono la forza del secondo, almeno inizialmente. Sul perché si potrebbe discutere per ore. Ogni storico, da Appiano a Plutarco, passando per Eutropio e Valerio Massimo, fornisce una versione personale della questione, talvolta in contrasto con le altre. Ne risultò un disastro per Roma, perché i generali di Mitridate nell’89 a.C. avevano messo mano su quasi tutta l’Asia proconsolare, sulla Bitinia e sulla Cappadocia. Il tutto mentre nella penisola italica c’era qualche disordine; roba di poco conto…
Mitridate aveva gioco facile nella regione. Erano in molti in Anatolia a non vedere di buon occhio la presenza romana. Le diverse popolazioni dell’Asia Minore sapevano come i Romani altro non fossero che rigidi esattori delle tasse, brutali dominatori e, perché no, usurai. Odio su cui i Pontici seppero capitalizzare. Quando Mitridate ordinò a tutte le genti sotto il giogo romano di ribellarsi, ottenne un risultato tanto immediato quanto devastante. Nell’88 a.C. si verificarono i cosiddetti Vespri asiatici: un eccidio che costò la vita ad un numero di Romani (più precisamente furono implicati tutti coloro che parlavano una lingua italica) che va da un minimo di 50.000 fino ad un massimo di 150.000 vittime.
Roma, ferita nell’orgoglio e non solo, reagì. Il Senato affidò a Lucio Cornelio Silla il governo della provincia d’Asia. Il console però non poté fare molto nell’immediato, vista la questione italica non completamente risolta e un clima da guerra civile che di certo non aiutava. La legge di Murphy valeva anche all’epoca: se una cosa deve andar male, state pur certi che lo farà. Ciò di cui Roma non aveva assolutamente bisogno (ovviamente) in quegli anni era una rivolta estesa e generalizzata anche sul continente europeo. Atene e tutta l’Acaia si rivoltarono al dominio romano, vedendo in Mitridate VI del Ponto un liberatore della grecità, un novello Alessandro Magno.
L’esercito pontico, sotto il comando di Archelao, avanzò dunque oltre l’Egeo. Silla lo avrebbe intercettato lì, nel cuore pulsante della Grecia. Ci volle un duro assedio per far cadere Atene e soprattutto il suo porto, il Pireo (87-86 a.C.) ma alla fine il console romano ebbe la meglio e ruppe le catene dell’alleanza greco-pontica. Mitridate non ci stette e mandò in loco un enorme esercito, quattro volte più grande di quello di Silla. 120.000 uomini sotto la direzione di Archelao affrontarono le legioni a Cheronea e poi più a nord, ad Orcomeno. Due volte la sconfitta frenò le truppe pontiche.
Quando tutto per Mitridate sembrò ormai compromesso, le divisioni interne al mondo romano corsero in suo aiuto. Il Senato ora riconosceva Silla come un nemico pubblico. In virtù di ciò, un esercito romano rivale marciava alla volta della Grecia. Il re del Ponto sfruttò l’occasione per fare pace con Silla e riorganizzarsi, così da farsi trovare pronto un domani. Mitridate trasse profitto dalla tregua con Roma (o meglio, con una parte di essa) perché riformò il suo esercito, adattandolo allo stile di combattimento dei legionari. Di fatto emulò quanto visto fare dai Romani in terra ellenica, con quale esito è difficile dirlo, ma presto avrebbe avuto modo di sperimentarlo.
Con la partenza di Silla e l’arrivo in Asia Minore di un suo ufficiale, Lucio Licinio Murena, scoppiò nell’83 a.C. la seconda delle guerre mitridatiche. Essa perdurò fino all’81 a.C. e fu un fiasco per le legioni di Murena, le quali ne uscirono sconfitte e con le ossa rotte. La vittoria al contrario diede fiducia (forse troppa, con senno di poi) a Mitridate che si decise a perseguire nuovamente una politica espansiva in chiave anti-romana. Dunque seguì un interludio di diversi anni in cui il sovrano del Ponto consolidò il suo potere ad oriente prima che uno degli ex delegati di Silla, Lucio Licinio Lucullo, arrivasse nel 74 a.C. per dare vita alla terza fase del conflitto.
Terza guerra mitridatica (75-63 a.C.) che di gran lunga si rivelò essere non solo la più longeva, ma anche la più risolutiva. Non potendo riassumerla in poche righe, mi concentro solo sulla sua battaglia apicale e sulle conseguenze scaturite dal conflitto. A Cizico, città sulla Propontide (antico nome del Mar di Marmara), ebbe luogo uno degli scontri più ricordati dell’età tardo-repubblicana. Di fatto un assedio condotto personalmente da re Mitridate – cosa più unica che rara – si trasformò in una catastrofe militare quando Lucullo con astuzia lo isolò e lo circondò. La rotta pontica si trasformò in un fattore di estrema destabilizzazione per il regno, che tutto poteva dirsi fuorché sicuro.
Mitridate cercò di riunire un altro esercito, ma questo fu rapidamente disperso. Poiché gran parte del Ponto cadde nelle mani di Lucullo, Mitridate fuggì in Armenia, dove suo genero, Tigrane, governava e aveva costruito un regno di successo più o meno sullo stile del parente. I due sovrani avevano collaborato in passato perciò Tigrane rispose con un secco “no, grazie” alle richieste romane volte all’estradizione del suocero. Il rifiuto indispettì la Repubblica, la quale si sentì legittimata ad invadere il Regno di Armenia e prendersi con le cattive ciò che non era riuscita ad ottenere con le buone. Ancora una volta Lucullo sbaragliò l’esercito di Tigrane tra il 69 e il 68 a.C.
Lasciatemelo dire a distanza di più di due millenni: Mitridate VI del Ponto sarà stato anche un sovrano avveduto, ma la dea bendata lo teneva puntualmente sul palmo della mano. Così come Silla non poté affondare il colpo di grazia anni prima a causa dei giochi di potere interni all’Urbe, stessa cosa non poté fare Lucullo. Sfiduciato dalla classe dirigente e da buona parte delle sue truppe, lontanissime da casa ormai da tempo e spossate oltre modo (mai nessun generale romano era arrivato così ad oriente), Lucullo fu messo un po’ da parte. Ne approfittò il re del Ponto che tornò a casa e mise in piedi, per l’ennesima volta, un esercito con cui giocarsi le ultime carte. In queste sortite, tra le ultime, Mitridate ebbe la meglio e causò la morte di un gran numero di ufficiali romani di carriera.
Le danze si apprestavano a chiudersi. Nel 66 a.C. prese parte alla disputa Gneo Pompeo Magno (esatto, quello del Bellum Piraticum!). Diciamocela tutta, la guerra contro un disperato Mitridate l’aveva vinta Lucullo. Pompeo giunse in Asia Minore per ratificare quanto già stabilito e, sentenziamolo, per prendersene il merito. Inarrestabile, l’esercito romano costrinse Mitridate al secondo esilio. Quest’ultimo non avrebbe più messo piede nel regno che contribuì a rendere grande. Ma un’altra impresa, strabiliante e quasi mitica per come giunse a materializzarsi, lo attendeva.
Pompeo non inseguì Mitridate che, vecchio e ormai finito, sembrava stesse andando a svernare nel selvaggio Caucaso. Non datelo per morto a questo qui, mai. Senza entrare nel dettaglio, sennò facciamo notte, il leggendario Mitridate VI del Ponto mise in piedi una nuova armata e contro tutto e tutti (forse uccise due dei suoi figli formalmente al potere nelle propaggini più estreme del vecchio regno pontico) giurò vendetta a Roma. Uno dei figliocci che aveva preso il ticket per essere ammazzato dal padre, non volle fare la fila e si ribellò. Egli si chiamava Farnace e fu colui che finalmente pose fine, anche se indirettamente, alla vita di un uomo fattosi berserker.
Isolato e senza più speranze, Mitridate un tempo Mégas preferì togliersi la vita piuttosto che finire nelle mani dei Romani. Sul come è nata una leggenda che nel tempo si è ben radicata. Io ve la racconto, ma è probabile non sia mai successo nulla di ciò che leggerete. La fine di Mitridate è ironica oltremodo. Decise di suicidarsi insieme alle sue figlie. Loro ingerirono del veleno che il vecchio sovrano era solito portare con sé. Lui tentò la stessa sorte, ma non riuscì ad ammazzarsi, vista la sua sostanziale immunità. Alla fine chiese ad una guardia a lui fedele di ucciderlo; l’uomo in armi eseguì l’ordine. 58 anni di terrore per Roma e di gloria per il Ponto terminarono così.