Se si potesse racchiudere l’essenza artistica di un pittore con un solo quadro, allora per il francese Édouard Manet basterebbe Il bar delle Folies-Bergère. Olio su tela realizzato tra il 1881 e il 1882, quest’opera incarna il principio costitutivo dell’universo artistico di Manet. C’è tutto, ma davvero tutto: la propensione a raffigurare tematiche quotidiane, semplici e ordinarie; lo spassionato utilizzo del nero; una razionale disposizione di soggetto ed oggetti nella scena; un gusto non indifferente per le nature morte. E poi è complicato resistere a quel fascino decadente, sfiancato, quasi vinto dal corso della vita, emanato dalla ragazza in primo piano, punto focale del dipinto. Tanti lo hanno definito il testamento artistico di Manet, penso che definizione più corretta non esista.
In caso siate curiosi, oggi è possibile ammirare Il bar delle Folies-Bergère presso la Courtauld Gallery di Londra. Un eventuale osservatore noterebbe fin da subito il contesto “pieno” e vivace” in cui si svolge la scena. Ha senso, perché il secondo protagonista è lo scenario stesso. Insomma, il titolo del dipinto non è casuale. Manet era un assiduo frequentatore delle Folies Bergère, uno dei locali più in voga della Parigi tardo ottocentesca, tra l’altro ancora oggi in attività. Un Café-concert in cui bastava pagare una quota d’ammissione per poter usufruire di numerosi e accattivanti servizi d’intrattenimento: concerti, balli, spettacoli teatrali, piccole esibizioni comiche e via discorrendo. Il locale del nono arrondissement divenne meta di pellegrinaggio per le menti libere di tutta la Ville Lumière.
Tornando all’ultima creatura del precursore impressionista, impossibile non cominciare l’analisi critica dalla centralissima ragazza in primo piano. Vestita di tutto punto, con le maniche arrotolate a tre quarti, le quali lasciano intravedere il pizzo ricamato, la scollatura vistosamente eclissata da una composizione floreale cadenzata e per nulla ingombrante. Sul collo pende un medaglione dorato, legato da fibbie di velluto nero. Nonostante l’indiscutibile decoro della signorina, adeguato all’ambiente di lavoro e alla mansione che è chiamata a svolgere, ella non tiene il passo delle aspettative, mostrandosi attendista, anche un po’ impacciata e goffa. Lo suggerisce la posa, le mani sul bancone come a voler esprimere in modo monotono e poco partecipato “mi dica, come posso servirla?”.
Il suo sguardo è rivelatore di una spiazzante regolarità. Ci si potrebbe aspettare un atteggiamento più provocatorio, incalzante, addirittura malizioso, e invece nulla di tutto questo. Si percepisce la spossatezza dell’individuo, accumulatosi a forza di servire nell’arco di tutta la giornata, perché è la vita reale e Manet sa come renderla esplicita, vera nei suoi quadri. Restando sugli occhi che tanto dicono, Manet non utilizza di nuovo l’espediente de La colazione sull’erba in cui la donna si distaccava dalla discussione tra gentiluomini per fissare lo spettatore della tela. No, ne Il bar delle Folies-Bergère la cameriera non guarda noi, bensì il cliente munito di bastone e cappello. Quest’ultimo non è immaginario, ma lo si intravede chiaramente attraverso lo specchio posto alle spalle della ragazza.
Come in molte altre opere degne di nota a firma Manet, i colori giocano un ruolo di primissimo piano. Spiccano per contrasti e sfumature, per tonalità e scelta cromatica. Ma così facendo Manet conferma un’altra sua tipica tendenza: se ne infischia delle classiche direttive prospettiche, in pieno animo bohémien, indocile e ribelle. A giustificazione di un’affermazione comprovata basti notare il riflesso del cliente e della ragazza, troppo a destra rispetto al normale, così come la distanza che intercorre tra le figure in primo piano e la restante folla, volutamente esagerata per far risaltare l’indefinitezza degli “altri”.
Oltre il dettaglio stilistico, che pure è importante, mi preme sottolineare la sensazione che Il bar delle Folies-Bergère trasmette. Non è tanto la vistosa coppia a farmi ragionare, in quanto esempi pratici di una quotidianità ripetitiva e obbligante. No, è sull’indistinta gente dietro il bancone che il mio pensiero si sofferma, come quello di molti altri prima di me. Manet vuole comunicare un senso di frivolezza e di fugacità di cui il presente è ingordo. Sembra che il pittore voglia trasmettere la superficialità del vivere giornaliero, con una malinconia esclusivamente velata dall’ambiente festoso. Pensate a cosa può restare della giornata alla barista o al cliente? Alla prima forse un po’ di stanchezza da mettere da parte perché domani è un altro giorno di asfissiante lavoro. Al secondo nulla se non l’apparenza delle occasioni mondane, oltre le quali giganteggia la banalità dell’uomo borghese.
Manet e tanti altri lo compresero in tempi non sospetti: che la società di fine XIX secolo tendeva all’esaltazione del capriccio esteriore, non all’autocritica dell’Io più recondito, quintessenza dell’essere umano. Ed è questo l’ultimo messaggio che un maestro come Édouard Manet ha voluto lasciarci, con un testamento artistico incomparabile per senso intrinseco ed estetica.