La storia del turbinoso intreccio tra il Banco di San Giorgio, Genova e i territori dati in pegno da quest’ultima all’istituto bancario, tra i quali si distingue l’isola di Corsica, è una vicenda figlia di trame politiche e finanziarie complesse, spesso tra di loro indistinguibili. Senza la pretesa di voler raccontare l’intera esistenza del banco o di esplicare dettagliatamente il dominio che man mano la Superba mise in atto sulla quarta isola del Mediterraneo per estensione, scelgo un anno esatto dal quale far iniziare la narrazione ed un anno altrettanto preciso che porrà fine al racconto. Gli estremi cronologici sono il 1453 e il 1562.
Esatto, durò poco più di un secolo la sovranità di San Giorgio sull’isola, salvo un’interruzione quasi ventennale durante la seconda metà del XV secolo. Sono necessarie diverse premesse prima di partire. In primis, è bene sottolineare come il banco coltivasse già da tempo interessi di tipo commerciale sulla Corsica. Quando nel 1347 i capi isolani decisero di affidarsi alla protezione di Genova pur di allontanarsi dalla sfiancante egemonia aragonese, l’antico e prestigioso istituto di credito (non ancora formalmente riconosciuto come tale) si accaparrò buona parte degli interessi sui tributi che l’isola avrebbe versato annualmente alla Repubblica. Il secondo presupposto in realtà è un’estensione del primo. Si sarà ben capito come genovesi e corsi coltivassero rapporti di privilegio già dal primo Trecento. Solo tenendo a mente queste relazioni di lunga data riusciamo a spiegarci ciò che accadde tra il 1447 e il 1453.
L’ente bancario – ufficialmente fondato con decreto statale il 27 aprile 1407 – accrebbe le proprie fortune per via del debito pubblico di Genova. Grazie alle cosiddette compere San Giorgio acquisì sempre di più la facoltà di esattore ufficiale della Compagna Communis (nome del comune medievale di Genova). Le compere erano contratti di prestito con i quali il banco otteneva in cambio la riscossione temporanea di imposte. Nel giro di qualche decennio si formò uno stato nello stato, con proprie prerogative economiche, commerciali e, nei territori assoggettati, addirittura politiche e militari. Qui però ci si potrebbe domandare: come faceva esattamente una banca ad estendere il proprio controllo su un dato territorio? In tal senso penso che il caso della Corsica possa definirsi esemplare.
Citando Francesco Somaini nel suo libro Geografie politiche italiane tra Medioevo e Rinascimento: “Certo, un debito pubblico troppo elevato poteva comportare anche delle controindicazioni piuttosto serie. Il caso più macroscopico da questo punto di vista fu indubbiamente quello genovese. La città e lo Stato di Genova, nel Quattrocento, erano sommersi da un debito pubblico ormai fuori controllo, finito tra l’altro nelle mani di un istituto bancario semi-privato. Il Banco di San Giorgio aveva di fatto in pugno le redini finanziarie della Repubblica… Genova si ritrovò in tali difficoltà finanziarie da non poter più pagare al Banco gli interessi sul debito, sicché dovette alienare al Banco stesso interi territori del proprio dominio, come ad esempio la Corsica”.
Le parole di Somaini sono chiarissime nell’evidenziare il modus operandi con il quale il Banco di San Giorgio prendeva possesso di territori un tempo amministrati da funzionari pubblici genovesi eletti dal Maggior Consiglio. Impiantatosi sull’isola nel 1453, San Giorgio iniziò una guerra spietata contro coloro che non ne accettarono l’autorità (per lo più baroni filo-aragonesi). La pacificazione poté dirsi completata solo nel 1462; così l’istituto di credito affidò il governo dell’isola al capitano genovese Tommasino da Campofregoso. Di lì a poco la situazione sarebbe mutata di nuovo. Con gli Sforza di Milano che allungavano la loro ombra anche su Genova, la Corsica cadde nell’anarchia. La situazione perdurò fino al 1484, anno in cui di comune accordo gli Sforza restituirono l’isola al Banco.
Non che ciò avvenisse in tempi sereni. Le turbolenze isolane erano all’ordine del giorno e non pochi signori feudali preferirono il comando di un estraneo (come lo fu il principe di Piombino, primo avversario del Banco sull’isola) a quello di un’istituzione bancaria. Guerre intestine lacerarono il tessuto sociale ed economico (già fortemente alterato) dell’isola. Il Banco vinse questa lotta solamente nel 1511. Non prima di aver soggiogato alcune delle città più riottose, come Biguglia e San Fiorenzo, o di aver ricostruito e fortificato Ajaccio (1492).
Purtroppo per i corsi, la scarsa lungimiranza politica di San Giorgio decretò di fatto un regime di tipo coloniale. Non esistevano programmi per una generica miglioria delle infrastrutture, dei commerci, delle città. La priorità era esclusivamente quella di sfruttare l’isola sul piano produttivo – sul legname si creò un gran giro d’affari, con i proventi che però finivano quasi tutti in mano al Banco, che non aveva reale interesse nell’investimento di quei fondi per lo sviluppo della Corsica – e strategico.
Con un colpo di spugna, il Banco di San Giorgio svuotò le istituzione locali, ad esempio la Terra del Comune, di un reale significato. I notabili corsi, che pure in minor misura provavano simpatie per la causa genovese, non poterono mai godere a pieno di una cittadinanza ligure. Così come i più facoltosi dell’isola non ebbero mai voce in capitolo nelle discussioni interne all’oligarchia patrizia genovese. A ciò si aggiungano tre fattori degradanti: le incursioni barbaresche; le carestie e una pressione fiscale a dir poco asfissiante. L’impoverimento e l’imbarbarimento furono due sinonimi della stessa tragedia.
Immischiata nelle dinamiche delle Guerre d’Italia, la Corsica non scampò ad invasioni, razzie e massacri ad opera di francesi, turchi, imperiali (spagnoli e tedeschi sotto Carlo V) e genovesi. Le principali piazzeforti dell’isola non videro altro che sangue fino alla metà del Cinquecento. Dopo il breve governo francese (1556-59) l’isola tornò al Banco, che però la perse malamente tre anni dopo. Il capitano di ventura Sampiero di Bastelica estromise San Giorgio dall’isola, facendo leva sull’astio popolare nei confronti dell’istituto e di Genova. Termina così, nel 1562, un’esperienza non tanto unica (il Banco si ritrovò a possedere quasi più territori che la Repubblica stessa), quanto peculiare. Questa è la storia di come una banca, sviluppatasi a tal punto da sembrare un corpo a sé stante nel contesto della Serenissima Repubblica di Genova, sia riuscita ad amministrare (con esito più infelice che altro) un’intera isola.