Nella storia c’è una grande verità che non ha mai smesso di imporsi: una cultura marittima e un’esperienza navale non si acquisiscono dall’oggi al domani, semplicemente investendo nella cantieristica di porto e facendo affidamento su risorse adeguate. Necessaria è l’esistenza di uno spirito marinaresco, l’adozione di tecniche e tecnologie in grado di migliorare un’eventuale ed auspicabile flotta, prefissarsi delle prospettive a lungo termine e perseguirle con pazienza e dedizione. Non molto tempo fa dedicai un approfondimento sulla riscoperta partenopea del mare negli anni d’oro di Carlo di Borbone. Oggi l’intento è simile anche se non si parla assolutamente di “riscoperta”. Vorrei infatti concentrarmi sulla prospettiva marittima di un dominio tipicamente terragno come quello dei Savoia, come questa viene a costruirsi nel tempo, tra moltissime difficoltà, tanto supporto esterno e qualche, seppur timida, soddisfazione.
Sebbene il grosso della discussione verterà sull’Età Moderna, mi è impossibile non iniziare dal Basso Medioevo. Il perché è semplice. I Savoia, signori dell’omonima contea (ducato lo diverrà nel 1416) e della Marca di Torino, riuscirono ad inglobare Nizza nei loro domini nel 1388. La nota “Dedizione di Nizza” permise alla causa sabauda di affacciarsi per la prima volta sul mare, elemento sconosciuto fino ad allora. Non parliamo mica di chissà quali grandi acquisizioni territoriali, ma era quanto bastava per la creazione di un embrionale forza navale, la costruzione di un porto nella località di Villafranca e la messa in piega di un sistema tributario che interessasse le navi in transito lungo quella porzione di costa.
È solo con il secondo Cinquecento che lo Stato Sabaudo, nella persona del duca Emanuele Filiberto, tenta una nuova riscossa marittima. Andavano superati gli anni duri delle Guerre d’Italia, del gravoso faccia a faccia franco-spagnolo. Per farlo il duca volle fortificare Nizza, rilanciando l’economia di una contea così provata dai bellicismi degli anni passati. Da quel porto salparono le navi piemontesi che nel 1565 peroreranno la causa degli Ospitalieri di Malta sotto assedio ottomano. Ancora da Nizza nel 1571 spiegarono le vele in direzione Lepanto le navi offerte dal duca per causa cristiana. Di lì a poco i Savoia si appropriarono di Oneglia e Tenda, legando finalmente la parte terrestre del ducato alla riviera.
Le acquisizioni hanno senso da un punto di vista strategico prima ancora che politico. Tra XVI e XVII secolo Casa Savoia scoprì le carte, lasciando intendere ai vicini la volontà di espandersi sul suolo “italiano”, mettendo da parte quell’identità francese/francofona che pure sopravviveva e continuerà a farlo per molto tempo ancora. Strategia e politica combaciarono perfettamente nei piani sabaudi. Attraverso i porti gli Stati italiani, in balia del giogo imperiale e spagnolo, potevano reclamare una certa considerazione da parte dei grandi d’Europa. Il ducato dunque chiamò a sé l’attenzione inglese, il terzo incomodo in quel quadro duopolistico. Una vicinanza teorica per tutta la prima metà del Seicento, resa pratica col trattato commerciale anglo-sabaudo del 1669 e le successive collaborazioni degli anni ’70.
Sebbene l’Inghilterra preferisse come scalo per le proprie merci la più vantaggiosa Livorno alla seppur dignitosa Nizza (porto franco dal 1667), i buoni rapporti tra le due parti sfociarono in un’alleanza militare nel 1704, durante la Guerra di Successione Spagnola. Sarà in nome di questa alleanza che lo Stato Sabaudo metterà le mani sulla Sicilia a seguito della Pace di Utrecht (1713). La difficoltosa amministrazione della Trinacria mise a dura prova la flottiglia piemontese, nata con l’ausilio britannico. Il duca Vittorio Amedeo accettò senza troppi rimpianti lo scambio (imposto e diseguale) della Sicilia per la Sardegna con la “Quadruplice Alleanza”.
Il 1720 è la data cardine dalla quale si fa iniziare l’esperienza sabauda in Sardegna, una vicenda delicata, anzi, delicatissima. I Savoia vantavano una modestissima Real marina sarda, rappresentata da qualche vecchia galea e sparute unità minori. Il minimo per garantire un collegamento tra il continente e l’oltremare. Maggiormente complessa fu la questione barbaresca. I pirati rintanati nelle isole di Sant’Antioco e San Pietro causavano scompigli sulle coste sarde. Rimpolpando la flotta (ancora priva di navi di linea) e fortificando le principali città isolane (Cagliari in particolar modo), si mise una toppa al problema non risolvendolo del tutto.
Nel mentre continuava la prosecuzione di una politica fortemente improntata sul mare e sul valore del commercio marittimo. Sotto Carlo Emanuele III il Regno di Sardegna dismise le ultime vetuste galee, acquistando dall’amica Inghilterra e dall’Olanda navi più nuove e decisamente prestanti. A Nizza aprì il nuovo porto mercantile di Limpia e nel 1749 un editto regio stabiliva la possibilità per chiunque, senza distinzione di fede (purché non si scadesse nel proselitismo e nell’ostentazione religiosa), di fare affari in città. In quel di Villafranca sorse una scuola navale e non solo: si costruirono cantieri, una diga foranea, un bacino di carenaggio (ancora oggi in uso), dei bagni ed una moschea per i prigionieri saraceni.
Quelli furono bei tentativi di ammodernamento, senza ombra di dubbio, ma dagli esiti incerti, quasi discordanti. Benché vigesse una supervisione forestiera erano mille i difetti sabaudi nell’approccio al mare. Mancava l’omogeneità negli equipaggi, c’era una scarsa professionalità, pochissimi gli esperti e ancor meno le risorse per tenere in piedi una marina degna di tale nome. Con la ripresa delle incursioni piratesche in Sardegna, i Savoia chiesero ed ottennero da Napoli nel 1782 due mezze galere. Navi lunghe 30 metri, mediamente veloci ma buone da manovrare. Grazie a queste imbarcazioni le coste dell’isola (nonché del nizzardo) poterono dirsi abbastanza protette. Non una certezza, ma qualcosa su cui fondare i futuri provvedimenti navali in Età Contemporanea.