La Seconda Guerra Mondiale ha privato della vita quasi 70 milioni di individui. I conflitti che l’hanno contraddistinta hanno portato con loro solo devastazione, crudeltà e tragedia. Di tutti gli scenari bellici, nessuno poté definirsi più attivo e longevo di quello orientale, con il Giappone che diede avvio all’invasione in Manciuria nel 1931 e mosse ufficialmente guerra alla Cina nel 1937 (in occasione dell’incidente del ponte Marco Polo). I successivi sconvolgimenti causati da queste aggressioni sconvolsero la Cina. Innumerevoli furono le atrocità di cui Tokyo si macchiò a danno del popolo cinese durante la brutale occupazione, eppure nessuna fu così gratuitamente odiosa (se la gioca con Nanchino…) come le operazioni dell’Unità 731. Sulla carta si presentava come Divisione per la Prevenzione Epidemica e Rifornimento idrico dell’Armata del Kwantung, ma nell’atto pratico non era molto differente da ciò che accadeva nei campi di sterminio nazionalsocialisti sparsi in Europa.
I primi anni ’30 sono centrali per inquadrare l’esordio e lo sviluppo di questa terribile vicenda. A partire dal 1931 l’Esercito imperiale giapponese avanzò nella Cina nord-orientale e prese possesso di Harbin, una delle principali città della Manciuria. Seguendo l’esempio fornito dalle grandi potenze dell’epoca, anche il Giappone promosse una serie di ricerche scientifiche con finalità belliche. Tra i tanti campi esplorati, quello biologico attirò maggiormente l’interesse dei vertici militari nipponici. Dunque nacque l’Unità Tōgō, operativa nella città di Harbin e inizialmente sotto la giurisdizione della Kempeitai, ovvero la polizia militare. Non passò molto tempo che ad assumere il comando del distaccamento fu Shirō Ishii. Medico e ufficiale dell’esercito (maggiore dal 1932, colonnello nel 1938, generale dal 1941), Ishii trasformò Harbin in un polo di sperimentazione personale.
Il fine ultimo di Shirō Ishii e dell’esercito imperiale era quello di costruire un’arma speciale in grado di avvantaggiare il Giappone sulle altre nazioni impegnate nel conflitto. Per la realizzazione del progetto servivano finanziamenti, strutture e cavie, meglio se umane. Tokyo accontentò largamente la prima richiesta, con ingenti stanziamenti annuali. Il secondo punto trovò soddisfazione quando l’Unità Tōgō si trasferì 100 km a sud di Harbin, nella fortezza di Zhongma. La soluzione fu solo temporanea, visto che nel ’33 Ishii chiese ed ottenne la dislocazione nel complesso di Pingfang, più vicino e meglio collegato alla città di Harbin. Nuova struttura, nuovo nome: l’Unità Tōgō divenne Unità Ishii. Solo dal 1941 si cominciò a chiamarla Unità 731.
Pingfang era il riflesso delle ambizioni dell’alto comando nipponico in senso scientifico-sperimentale. Gli scienziati dell’Unità 731 potevano contare su più di 150 edifici appositamente costruiti per le loro esigenze. Vi erano magazzini, uffici, fabbriche, prigioni, forni, laboratori chimici, camere iperbariche, piscine. Alla popolazione le autorità dissero che tutto quel lavoro, quell’andirivieni di treni e camion, era dovuto alla costruzione di un’enorme segheria. Ennesima evoluzione – questa volta in termini quantitativi – ci fu nel 1937. Tokyo affidò a Shirō Ishii ben 8 divisioni (10.000 uomini circa) da poter collocare in giro per il territorio cinese. Così nacquero delle unità satelliti a Pechino, Nanchino e Singapore.
Scavando più a fondo, si possono scorgere le gesta disumane e insensatamente strazianti di cui l’Unità 731 si rese esecutrice. Di cavie umane si è scritto pocanzi non a caso. Il loro nome era “maruta“, che possiamo tradurre come “tronchi”. Il soprannome si poteva giustificare in un primo momento con la storia della segheria, ma anche perché i soldati giapponesi erano soliti ammassare i prigionieri destinati a Pingfang all’interno di angusti vagoni merci, per poi ricoprirli di fusti e ceppi di varie dimensioni. I maruta altro non erano che civili cinesi, prigionieri statunitensi, russi, mongoli, così come dissidenti politici, criminali, disabili, senza tetto. Donne, anziani e bambini non sfuggivano al rastrellamento, anzi, erano ampliamenti richiesti.
Cosa li attendeva non l’avrebbe mai immaginato neppure il più pessimista degli internati. Gli scienziati potevano iniettare nelle cavie virus e batteri, così da osservare il decorso clinico del tifo, della peste, del colera, meningite, vaiolo e così via. Carne da macello da testare in prossimità di esplosivi, lanciafiamme e armi di vario genere. Molti finivano sotto i ferri senza anestesia e dovevano assistere alla cruda asportazione di organi interni o di arti. Si potrebbe andare avanti all’infinito: iniezioni di urina equina nel sangue; sessioni prolungate in camere di decompressione; mutilazioni “creative” e riallacciamenti di arti altrettanto fantasiosi; impiccagioni per cronometrare l’incombere della morte per asfissia; congelamenti e scongelamenti per registrare le diverse reazioni corporee in base ai soggetti analizzati. Tra il 1936 e il 1945 ne morirono a migliaia a causa di queste orrende pratiche. Circa in 300.000 invece perirono “indirettamente” per via degli esperimenti batteriologici dell’Unità 731.
Non che ci si limitasse a questo. Grandissimo interesse era prestato dagli scienziati ai rapporti sessuali tra infetti e non infetti. I maruta dovevano consumare un rapporto a comando, così da contrarre eventualmente malattie veneree (gonorrea e sifilide in prima fila) e divenire oggetti di studio. Se tutto andava secondo i piani, gli scienziati avrebbero proseguito lo studio tramite vivisezione. Non è dato sapere quante gravidanze si registrarono nel corso di quegli anni così bui e tetri. Così come non è dato sapere quale fine fecero i nascituri. Una girandola degli orrori che sembrava non accontentare mai i piani alti dell’Unità 731.
Ricordiamo brevemente per quali ragioni il distaccamento venne alla luce: esatto, per scopi militari. E infatti Shirō Ishii e Masaji Kitano (il braccio destro di Ishii) ebbero modo di progettare proiettili da 75 mm cosparsi di materiale biologico, anche se il loro “capolavoro” furono le Uji-50: bombe con involucro di ceramica contenenti farina e pulci infette da yersinia pestis. Sapete come sprigionavano il loro potenziale distruttivo? Una volta avvenuto l’impatto con il suolo, la farina avrebbe attirato i ratti dell’area circostante ai quali si sarebbero attaccate le pulci infette. La ricetta per l’epidemia perfetta era servita. L’Esercito imperiale giapponese sganciò le Uji-50 nella provincia di Hunan (sulle città di Ningbo e di Changde) e su Nanchino, ottenendo risultati “non considerevoli” se confrontati con le alte aspettative di scienziati e generali.
Hiroshima, Nagasaki e l’avanzata dei sovietici in Manciuria fermarono i folli progetti dell’Unità 731. Tra questi il bombardamento batteriologico di San Diego, nome in codice “Operazioni Fiori di Ciliegio nella Notte”. Senza più supporto militare, Ishii decretò lo scioglimento dell’Unità 731 e ordinò l’esecuzione di tutti i prigionieri rimasti, la distruzione della documentazione nonché delle strutture strategiche. Al contempo chiese ai suoi più stretti collaboratori di suicidarsi o, nel caso in cui fossero finiti sotto la custodia degli Alleati, di non fare parola di quanto accaduto a Pingfang. Prima di ripartire per Tokyo, Ishii liberò le ultime pulci infette rimaste aggravando una situazione a dir poco drammatica.
Nel settembre del 1945 l’Armata Rossa raggiunse Pingfang ma non trovò chissà quanto. Sì, qualche documento sulla paventata costruzione di un’arma biologica, ma nulla di più. Nozioni vaghe, troppo vaghe per incriminare qualche responsabile. Mosca non desiderava quelle informazioni perché mossa da un ardente spirito di giustizia. L’obiettivo era mettere mano sui progressi scientifici giapponesi, il che avrebbe comportato un superamento della controparte statunitense nella competizione ancora in fasce. Stesso identico pensiero circolava tra i corridoi della Casa Bianca e del neonato Pentagono. Solo che Washington arrivò prima.
Il colonnello Arvo Thompson ottenne l’incarico di rintracciare il desaparecido Shirō Ishii. Si scoprì come quest’ultimo, pur di darsi alla macchia, inscenò la propria morte e in seguito persino il funerale, con parenti annessi. Alla fine gli americani lo trovarono e tra il gennaio e il febbraio del 1946 lo interrogarono. Ishii negò quasi tutto, ma si assunse le responsabilità di qualunque atto considerato criminale dagli organi giudiziari internazionali. Gli orrori compiuti dall’Unità 731 erano un po’ il segreto di Pulcinella, ambo le parti lo sapevano. Così verso il 1947 si giunse ad un patto: Ishii avrebbe rivelato agli americani le sue preziose conoscenze ma in cambio chiese l’immunità. Il beneplacito del generale Douglas MacArthur fece andare in porto l’accordo.
Nell’enorme – per mole di imputati e capi d’accusa presentati – Processo di Tokyo non venne mai fatto il nome di Shirō Ishii, anche se diversi papaveri dell’Unità 731 furono citati in causa. I crimini contro l’umanità commessi in Manciuria a quanto pare non avevano responsabili. L’Unione Sovietica protestò veementemente, ottenendo anche un colloquio con lo stesso Ishii dal quale tuttavia non ricavò nulla. Nei fatti, solo gli USA sapevano e avrebbero continuato a mantenere il segreto sino alla metà degli anni ’70. Nel 1976 negli Stati Uniti andò in onda un programma d’inchiesta che rivelò le inedite dichiarazioni di 20 ex dipendenti dell’Unità 731. Lo scossone riaccese il caso, anche agli occhi dell’opinione pubblica, che ne volle sapere di più. Spuntarono dal nulla indizi ed elementi dal valore probatorio.
Si arriva al 2002, quando il tribunale distrettuale di Tokyo ammette quanto fatto dall’orribile macchina scientifica-militare messa in piedi dall’Esercito imperiale giapponese ed affidata a Shirō Ishii. Di lui che ne è stato? Un cancro alla laringe gli ha strappato la vita il 9 ottobre 1959. Grazie all’immunità americana, Ishii è morto da uomo libero, lo stesso uomo che ha privato della libertà una quantità spaventosa di persone in nome di una schizofrenica assurdità.