Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Gioavanni Falcone e Francesca Morvillo. Queste sono le vittime dell’attentato di stampo mafioso avvenuto il 23 maggio 1992 sul tratto autostradale nei pressi di Capaci, nel palermitano. L’evento oggi è giustamente ricordato come uno dei punti più salienti dell’eterno scontro Stato-Mafia. Onorando la memoria delle vittime, ci interessa oggi capire chi era Giovanni Falcone e in che modo si contrappose a quell’idra chiamata “Cosa nostra”.
Di eterno scontro abbiamo appena parlato, non a caso. Fin dagli anni ’70 la Repubblica si stava “armando” per contrastare la criminalità organizzata, utilizzando e mettendo in atto l’esperienza acquisita con la lotta al terrorismo politico. In quest’ottica dobbiamo comprendere l’ascesa, sulla scena pubblica e giudiziaria, di un uomo nato a Palermo nel 1939: Giovanni Falcone.
Il momento in cui Falcone entra a far parte del pool antimafia, nel 1979, coincide con uno dei periodi più “movimentati” per quanto riguarda l’attivismo mafioso nel meridione italiano. Si susseguono senza sosta omicidi, atti di terrorismo. Ad essere colpiti sono giornalisti, imprenditori, forze dell’ordine e politici. Il giudice palermitano, in collaborazione con l’FBI, si impegna nell’indagine sul narcotraffico italo-americano, che vede come protagonista l’imprenditore Mario Spatola. Ed ecco che la figura di Falcone riceve riconoscimenti anche oltreoceano.
Eppure il capolavoro giudiziario per eccellenza (sul quale vorremmo dedicare più di qualche approfondimento in futuro) è il maxiprocesso condotto dalla coppia Falcone–Borsellino. Con quest’ultimo si sottoscrive l’intenzione di portare a giudizio Cosa nostra. Dal 1982 in poi i risultati del maxiprocesso saranno straordinari, perché per la prima volta si riuscì a scavare in quel guscio, fino ad allora apparentemente impenetrabile, chiamato Mafia. Non solo un nome vago, ma una struttura unitaria, gerarchica, segreta, radicata nel territorio attraverso tradizioni di lunga data.
Non è superfluo ricordare come la determinazione di Falcone, ma in generale di tutti coloro coinvolti in questa lotta (perché di lotta si tratta), si sia tramutata nel più grande successo dello Stato in più di un secolo di scontro con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Ma viviamo in Italia e lo sappiamo, nessuno è esente da critiche, talvolta aleatorie. Falcone non fece eccezione. La centralità assunta dal 53enne palermitano divenne un bel problema per i suoi nemici.
Fu così che il 23 maggio del 1992, quando ormai mancavano pochi minuti allo scoccare delle 18:00, un’impressionante esplosione, paragonabile a quella di un bombardamento, distrusse il tratto di autostrada in cui si trovava il giudice, sua moglie e la scorta. Il cratere che si venne a creare risucchiò le auto, le vite dei coinvolti si spensero. Eppure Capaci divenne un simbolo, il simbolo di un’Italia che nonostante tutto, lotta contro il male mafioso.