Una svolta archeologica senza precedenti presentata tra le pagine della rivista scientifica Nature. Dopo quattro anni di esami, analisi e attenti confronti archeologici, si può finalmente svelare al mondo quella che risulta essere la più antica struttura lignea mai creata dall’uomo a noi pervenuta. Risalente quest’ultima a 450.000 anni fa. Una notizia meravigliosa che ci fa viaggiare verso il meridione africano, esattamente al confine tra lo Zambia e la Tanzania.
A guidare la ricerca è stato l’archeologo Larry Barham, dell’Università di Liverpool. Egli, introducendo i particolari dell’intera vicenda, ha riassunto in breve le conoscenze che avevamo sulle creazioni umane almeno fino a qualche tempo fa, prima della straordinaria scoperta. Innanzitutto, è bene evidenziare un punto: se la datazione (per ora incerta, ma comunque prossima alla stima fornita) fosse confermata, i due tronchi di legno composti precederebbero di circa 100.000 anni i più antichi resti di Homo sapiens da noi conosciuti. Un altro dato curioso? Eccolo qui: fino ad oggi la più remota struttura lignea risaliva a 9.000 anni fa, primo Neolitico. Questa si risolveva in una sorta di piattaforma sommersa dalle acque di un lago in Gran Bretagna,
Invece, se dovessimo prendere in considerazione il più datato manufatto in legno dovremmo andare indietro addirittura di 780.000 anni. Ad oggi infatti sappiamo come anche le altre specie umane, soprattutto le più remote e lontane nel tempo, maneggiassero utensili rudimentali. Eppure di complesse costruzioni in legno non se ne è mai trovata traccia. Questi confronti temporali rendono a pieno, almeno a mio avviso, la rilevanza archeologica e storica del ritrovamento in Zambia. Adesso però torniamo ai dettagli inerenti alla vicenda.
Il Dr. Barham, assieme ad un team di esperti archeologi, scopre nel 2019 i due pezzi di legno incastrati sulle rive del Kalambo, non lontano da una cascata al confine tra lo Zambia e la Tanzania. Probabilmente l’autore della composizione fu l’Homo erectus o forse l’Homo naledi. Comunque si tratta di antenati della nostra specie, comparsa all’incirca 300.000 anni orsono. Cosa avrebbe garantito un tale stato di conservazione? Si deve ringraziare l’acqua di una falda sotterranea per la preservazione del reperto in legno (sopravvissuto dopo quasi mezzo milione di anni…).
La procedura che ha portato alla prima datazione prende il nome di “tecnica della luminescenza“. Tale tecnica, attraverso l’analisi dei sedimenti, permette di individuare a livello cronologico l’ultima volta che il reperto è stato esposto alla luce del sole. Il Carbonio-14 non sarebbe servito a molto, vista la sua “portata” limitata ad oggetti non più antichi di 50.000 anni. Il ritrovamento del Kalambo mette in dubbio diverse nozioni preistoriche. Dopo questa scoperta, non siamo più sicuri del totale nomadismo delle prime popolazioni umane.
Il più piccolo dei tronchi misura quasi un metro e mezzo; ciò significa che al tempo doveva servire per supportare una struttura non proprio “minuscola”. Il ritrovamento rinnoverebbe anche alcune speculazioni sulla teoria linguistica. Un’eventuale struttura in legno così complessa avrebbe comportato un coordinamento tra ominidi della stessa comunità, coordinamento plausibile solo grazie ad un linguaggio primario ma evoluto. I due tronchi si trovano in un laboratorio inglese, ma è prossimo il loro ritorno in Zambia, dove verranno esposti al pubblico. Come dicevamo, questa sì che è una svolta archeologica senza precedenti.