Se si prende in esame l’insieme delle opere recanti la firma di Francisco Goya e le si analizza, avvalendosi di un filtro cronologico, balza all’attenzione un dettaglio curioso: man mano che va avanti con l’età, l’artista manifesta nelle sue creazioni pittoriche un progressivo pessimismo, esistenziale, sociale o scientifico che dir si voglia. Come si spiega questo “deterioramento” – che attenzione non è qualitativo, ma contenutistico, riguardante il significato dei temi affrontati – che nel tempo contraddistingue le tele di Goya? Quindi, per meglio porre la domanda e passare dall’introduzione al succo del discorso, chiediamoci: quale fattore ha trasformato Goya in un allegro ritrattista rococò in un cupo maestro dell’orrido?
La questione è più complessa di quel che ci si aspetta e necessita più di una semplice battuta. Francisco Goya fu prima di tutto uno degli esponenti più illustri – se non il più più illustre – dell’Illuminismo artistico spagnolo. A differenza dei suoi coetanei, egli non volse mai altrove lo sguardo di fronte alle scorrettezze e alle storture della società iberica. Vizi e problemi che non sfumava nelle sue opere, ma che anzi sottolineava, lasciando all’occhio attento, e a lui soltanto, l’onere di scovarli. Cercare un quadro idealizzato nel repertorio di Goya e come cercare il mare sulla luna, non lo troverete.
Lo si è detto pocanzi: il pittore di Fuendetodos abbracciò fermamente i dogmi dell’Illuminismo. Egli credeva nell’affermazione della ragione su tutto il resto, sul ribaltamento delle sistema sociale corrente in senso positivistico (termine anacronistico eppure azzeccato nel caso di Goya). Insomma, sulla superiorità della conoscenza a discapito dell’ignoranza, dannosa per l’individuo e deleteria per la collettività. Ora, racchiudere in quattro righe e mezzo il pensiero di una mente come quella di Goya è una barbarie, me ne rendo conto, ma è necessario a creare quell’effetto contrastante nel momento in cui si osserva la “deviazione” artistica del pittore, avvenuta grossomodo tra il 1792 e il 1793.
Gli storici dell’arte sono concordi nell’imputare questo mutamento radicale di stile e temi a fattori personali, politici e sociali. Nell’ordine: una malattia debilitante di cui ancora oggi non si sa quasi nulla; la successione al trono di Spagna che vide l’inetto Carlo IV di Borbone subentrare all’illuminato Carlo III; la brutta piega che la Rivoluzione stava prendendo in Francia mista all’ostilità che l’artista manifestava nei confronti di un’organizzazione facente capo al governo ancora molto influente sulla società spagnola. Sì, esatto, l’Inquisizione, sempre lei. Mix “fatale” di fattori che cancellò il Goya delle nitide pennellate per far spazio al Goya degli sfondi neri e delle tetre rappresentazioni.
Sperando di non essermi dilungato troppo, cerco di arrivare alla pancia della questione. Per farlo tuttavia non posso prendere una scorciatoia. Anzi, debbo per forza di cose spendere due paroline su cosa fosse l’Inquisizione spagnola tra XVIII e XIX secolo. Goya, così come altri illuministi, vedevano nell’Inquisizione uno strumento per intimidire, se non zittire, la voce del dissenso, che esso fosse religioso o banalmente sociale. Andava combattuta quella fonte di spietatezza e corruzione che urlava alla “stregoneria” a priori, senza tentare la via della ragione.
Abbagliate dalla novità illuminista, le aristocrazie europee mutarono sensibilmente la loro concezione sulla stregoneria. Essa non era più un male da eradicare in quanto nocivo per l’equilibrio spirituale della società tutta, serenamente adagiata sui sani principi cristiani. No, stregoneria faceva rima con superstizione popolare, ignoranza, folklore. Cose che non si combattevano con le fiamme del rogo ma con l’uso della ragione, con l’istruzione e la diffusione della conoscenza.
Quindi nel momento in cui la nobile casata dei duchi di Osuna commissionarono a Francisco Goya tele in cui poter rappresentare allegoricamente “l’ignoranza dietro la quale si cela il male”, l’artista fu più che lieto nell’accettare. Pedro Tellez-Giron, nono duca di Osuna, oltre che essere un noto mecenate ed un valido filantropo, intendeva mettere a nudo l’inconsapevolezza sulla quale basava la propria ragion d’essere il male demoniaco.
Goya diede vita a diversi capolavori, tra i quali Il grande caprone e La lampada del diavolo (El gran cabrón e La lámpara del Diablo). Entrambi sono del biennio 1797-98 e ambedue presentano una grammatica figurativa esplicitamente demoniaca. Nel primo dipinto citato spicca la presenza di un caprone, raffigurazione di Satana, intento ad officiare un rito sacrificale mentre è accerchiato da streghe. Nel secondo dipinto Goya ripropone una scena letteraria (estrapolata dall’opera El Hechizado por fuerza di Antonio de Zamora) in salsa pittorica. Il quadro racconta del maleficio al quale Don Claudio sarebbe condannato, per cui la sua vita è legata alla fiamma accesa di una candela. Il maleficio in realtà è una trovata dei suoi amici, consapevoli dell’ingenuità del prete e per questo avvezzi a spaventarlo con storie simili.
Del ciclo pittorico sono altresì importanti Il volo delle streghe o ancora L’incantesimo. Opere sul quale non mi soffermo ma che ripropongono lo scetticismo, anzi, l’avversione alla follia della superstizione popolare. Uno degli ultimi dipinti di Goya a riprendere queste tematiche è La congrega, il sabato delle streghe (El aquelarre, Escena sabática). Realizzato in un momento non meglio precisato tra il 1820 e il 1823, l’opera fu eseguita sul muro di gesso della propria abitazione. La fase ultima della vita di Goya è nota ai più: isolamento sociale, depressione, disturbi psichiatrici, sordità e vecchiaia. Elementi che aiutano a comprendere il senso di una simile creazione artistica, in cui la distorsione dei volti, la presenza demoniaca e l’ambiente da messa nera sono dettagli predominanti.
Ne La congrega, che si inserisce a pieno titolo nella lista dei quadri più ambigui ed inquietanti del pittore – d’altronde è parte dei cosiddetti Dipinti Neri – si intuisce l’intento originale di Francisco Goya. Egli nuovamente pone l’accento sulla pericolosità dell’ignoranza. Questa può “paralizzare” e tenere “in ostaggio”. Esattamente come accade alle persone che odono il diavolo in persona, magistralmente raffigurate da un immenso artista, quale Francisco José de Goya y Lucientes fu.