Fotografia di Wolfram von Richthofen, nei pressi di Smolensk, 7 luglio 1941. Jakov Iosifovič Džugašvili, primogenito di Stalin, viene fatto prigioniero dalla Wehrmacht durante la battaglia di Smolensk. Un prigioniero d’eccezione, disse più di qualcuno all’epoca dei fatti, non per Stalin però.
Unico figlio di primo letto per Stalin e Ekaterina “Kato” Svanidze, Jakov Iosifovič Džugašvili venne alla luce il 18 marzo 1907. Abbandonato dai genitori a pochi mesi dalla nascita, anche se per dinamiche completamente diverse (la madre morì di tifo nove mesi dopo, Stalin era ancora un giovanissimo rivoluzionario per nulla interessato a fare il padre), il piccolo crebbe nella casa della zia materna a Tblisi. Di carattere timido e riservato, Jakov si trasferì a Mosca nel 1921, quando quell’ingombrante uomo che si rifiutava di essere padre giganteggiava come leader della Rivoluzione. Durante la fase moscovita il primo figlio di Stalin tentò più volte il suicidio. Dopo una lite con il padre, egli si sparò sul petto, mancando di pochi centimetri il cuore. I dottori lo salvarono e sull’episodio resta celebre il commento di un disgustato Stalin: “Mio figlio è così incapace da non saper sparare dritto”.
Spostandosi tra Leningrado e Mosca, si cimentò in diverse frequentazioni e si sposò due volte. Il padre – l’avreste mai detto… – ebbe sempre da ridire sulle relazioni del figlio. Da questi matrimoni nacquero un figlio (Evgenij) e due figlie (una morì neonata e l’altra, Galina, è venuta a mancare nel 2007).
Jakov Iosifovič Džugašvili studiò prima come ingegnere, salvo poi intraprendere la carriera militare su insistenza di papà Iosif. Terminò l’apprendistato poche settimane prima dell’Operazione Barbarossa, divenendo tenente d’artiglieria il 9 maggio 1941. Neppure due mesi dopo scattò l’invasione delle forze congiunte dell’Asse a danno dell’Unione Sovietica. Stalin si assicurò personalmente che Jakov e Artyom Sergeyev, quest’ultimo suo figlio adottivo nonché compagno ufficiale di artiglieria dell’odiato primogenito, fossero andati in prima linea. Jakov prestò servizio come tenente d’artiglieria nella 6ª batteria del 14º reggimento della 14ª divisione carri, 5º Corpo meccanizzato, assegnato alla 20ª armata.
I tedeschi lo catturarono durante la battaglia di Smolensk il 7 luglio 1941. Le circostanze della cattura non sono chiarissime, anche se la maggior parte delle fonti è concorde nell’affermare che il figlio di Stalin si arrese volontariamente. La notizia fu resa pubblica dalle autorità occupanti solo il 19 luglio. Stalin si infuriò quando lo venne a sapere. Pochi giorni prima annunciò in un discorso al popolo che nessun uomo dell’Armata Rossa si sarebbe arreso pur di difendere la madrepatria. Insomma: o la vittoria, o la morte. L’idea che il primogenito, colui che avrebbe dovuto dare l’estremo esempio, avesse gettato le armi senza neppure combattere lo mandò su tutti i nervi. Nei giorni immediatamente successivi alla cattura di Jakov, Stalin fu sentito borbottare più volte sul perché il figlio non si fosse suicidato.
Il giorno della cattura era presente sul campo il generale Wolfram von Richthofen (al comando dell’VIII Fliegerkorps). Il lontano parente del Barone Rosso Manfred von Richthofen scattò le fotografie che poi divennero note al grande pubblico. Grazie alle sue testimonianze e a quelle dell’Abwehr (servizio di spionaggio militare nazionalsocialista dal 1921 al 1944) possiamo ricostruire gli ultimi anni di vita di Jakov Iosifovič Džugašvili. Appena catturato tentò di non farsi riconoscere, strappandosi le insegne. Tuttavia l’alto comando tedesco non si fece ingannare e identificò il prigioniero. Curiose furono le sue dichiarazioni durante l’interrogatorio. Jakov criticò un po’ tutti: la sua divisione in primis, poi le altre unità sovietiche, i comandanti militari, i “presunti” alleati del Regno Unito.
I documenti dell’interrogatorio – ancora oggi disponibili nell’archivio militare di Friburgo; forse qualcosa si riesce a reperire anche online – lasciano intendere un atteggiamento al limite del ruffianesco. Lodò apertamente il Terzo Reich, asserendo come “l’Europa non sarebbe nulla senza l’impero germanico”. Nonostante fosse sposato con una donna ebrea palesò durante la sessione un certo antisemitismo. Si legge: “[Gli ebrei] commerciano o aspirano a carriere nell’ingegneria, ma non vogliono essere operai, tecnici o braccianti contadini. Ecco perché nessuno nel nostro paese rispetta gli ebrei”.
Con evidenti fini propagandistici, i tedeschi cercarono di sfruttare l’immagine di Jakov. Distribuirono sul fronte volantini che lo raffiguravano sorridente, intento a passeggiare con alcuni ufficiali della Wehrmacht, alludendo ad un’affiliazione. A Mosca risposero per le rime. Tramite la Krasnaya Zvezda (“Stella Rossa”), il giornale ufficiale dell’Armata Rossa, lo Stato Maggiore sovietico annunciò il 15 agosto 1941 che Jakov Iosifovič Džugašvili avrebbe ricevuto l’Ordine della Bandiera Rossa (una delle medaglie più prestigiose dell’URSS) per le sue azioni durante la battaglia di Smolensk. Goebbels sperò allo stesso modo di sfruttare Jakov per la propaganda nazionalsocialista in lingua russa attraverso trasmissioni radiofoniche. Per motivi non meglio definiti, il piano saltò e dalla villa sorvegliata in cui era finito a Berlino, il figlio di Stalin raggiunse il campo di concentramento di Sachsenhausen.
Gli irrequieti giorni nell’esteso lager tedesco sembrarono trovare una svolta nel febbraio 1943. Quando la 6ª armata di Paulus si arrese a Stalingrado, i tedeschi offrirono Jakov in cambio del feldmaresciallo sconfitto. Stalin rifiutò categoricamente lo scambio, dichiarando in presenza del Ministro degli Esteri Molotov: “Pensa a quanti miei figli [riferendosi a tutti i cittadini sovietici] sono finiti nei campi! Chi li scambierebbe con Paulus? Perché Jakov meriterebbe un trattamento migliore di loro?”.
Il 14 aprile 1943 il figlio del Segretario generale del PCUS morì nel campo di sterminio di Sachsenhausen. Anche i dettagli sul decesso furono controversi. Il resoconto delle SS afferma come il prigioniero si fosse arrecato da solo la morte gettandosi sulla recinzione elettrica che delimitava il campo. Tuttavia qualche testimonianza attendibile, reperita tra i reclusi presenti quel giorno e sopravvissuti all’Olocausto, parlò di “evidente omicidio commesso dalle Waffen-SS”.