Fotografia di Margaret Bourke-White, India, primavera del 1946. Gandhi legge ritagli di giornale; una foto concessa dal Mahatma solo dietro una particolarissima condizione. Mohāndās Karamchand Gandhi, un nome, un simbolo indiscusso del XX secolo, forse nessuno come lui. Così come nessuna immagine è in grado di ritrarlo nella sua ordinaria quotidianità con la stessa efficacia dimostrata dagli straordinari scatti di Margaret Bourke-White nel 1946.
Margaret Bourke-White nel secondo dopoguerra si trovava nel subcontinente indiano per scrivere un approfondimento sul processo che stava conducendo l’India e il Pakistan alla Partizione, termine con cui i due paesi oggi indicano la dissoluzione del Raj britannico e l’indipendenza ottenuta dai rispettivi domini. L’articolo sarebbe stato pubblicato il 27 maggio del 1946 sulla rivista LIFE col titolo “India’s Leaders”.
L’inviata scattò per l’occasione numerose fotografie, all’incirca un centinaio, gran parte delle quali raffiguravano il Mahatma intento a manifestare pubblicamente. Eppure, scavando nel bottino fotografico, la Bourke-White si accorse di non detenere alcuna fotografia ritraente Gandhi da solo, nella sua più semplice e sincera ordinarietà.
E in effetti sul numero del 27 maggio ’46 tra gli scatti non ve ne fu nemmeno uno del genere. Bourke-White volle rimediare alla mancanza, così in vista del nuovo articolo (calendarizzato nel giugno del medesimo anno) incentrato sul fascino della personalità di Gandhi, chiese al pioniere della disobbedienza civile l’autorizzazione a scattare qualche fotografia più “intima”, dove per intimo s’intende “confidenziale”, ma nulla all’infuori del consuetudinario. Gandhi accettò ma ad una sola condizione: la giornalista avrebbe dovuto prima apprendere la tessitura con l’arcolaio, strumento amato dal Bapu.
Sul numero estivo di LIFE vi si può trovare ancora oggi l’originale nota dattiloscritta dell’episodio, che io riporto qui di seguito solo parzialmente: “[Gandhi] fila ogni giorno per un’ora, iniziando di solito alle quattro del pomeriggio. Tutti i membri del suo ashram (lett. “luogo di meditazione”) devono filare. Lui e i suoi seguaci incoraggiano tutti a filare. Anche io sono stata incoraggiata a mettere da parte la macchina fotografica per filare. Quando ho osservato che sia la fotografia che la filatura erano lavori artigianali, mi hanno detto con tono quasi severo: ‘Il più grande dei due è filare’. Il gesto è comparabile al più importante dei rituali religiosi per Gandhi e i suoi. La ruota che gira è una specie di icona per loro. La filatura è una panacea e se ne parla in termini altamente poetici”.
Impiegò un po’ di tempo, ma alla fine la Bourke-White riuscì a tessere con l’arcolaio. Gandhi mantenne la promessa e si fece scattare le fotografie tanto agognate. Con il tempo tra la giornalista e la “Grande Anima” si instaurò un rapporto di sincera amicizia e fiducia reciproca.
Non è un caso che la giornalista newyorkese divenne la fotografa ufficiale del Mahatma fino a quei tre colpi di pistola del 30 gennaio 1948, mortali per Gandhi, tragici per l’India, pesantissimi per l’umanità intera.