Fotografia di Gennady Koposov, tundra siberiana settentrionale (da qualche parte nel Circondario degli Evenchi), 1 gennaio 1964. L’allora trentunenne Koposov immortala il corteo funebre di un pastore di renne, svoltosi in un clima freddo a dir poco, visti i 55 gradi sotto lo zero.
Lo scatto è molto semplice, immeditato nel voler comunicare l’idea di condizione climatica estrema, sì, ma non per tutti. Perché da quelle parti, nella sconfinata Siberia russa, il freddo è la costante quotidiana per eccellenza. Un compagno di vita, si direbbe. Il bianco e il nero, con un’ovvia prevalenza del primo a discapito del secondo, sottolineano il rigore di un clima proibitivo. Inibizione tuttavia affrontabile in casi ordinari come può essere la morte di un pastore di renne.
L’affronta anche un bambino, soggetto in primo piano della fotografia. Probabilmente di etnia Evenchi (chiamati erroneamente Tungusi fino agli anni ’50 dello scorso secolo), il ragazzino è adeguatamente coperto, imbottito per resistere al freddo estremo. I suoi occhi, gli unici a potersi dire esposti alle intemperie, “posano” per il fotografo, anche se non è semplicissimo interpretare l’espressione del piccolo.
Gennady Koposov si trova in quel luogo sperduto – patria di nomadi, neve, renne e lupi – per documentare alcuni tratti culturali dei gruppi etnici presenti sul territorio che si estende dal fiume Ob’ ad ovest fino al mare di Ochotsk, ad est. Approssimativamente sono 2 500 000 km² si sconfinata vastità, allora sotto il vessillo sovietico.
Sia chiaro: quella non è terra esclusivamente tungusa. È casa di Yakut, Tatari siberiani, Ket (di cui vi ho parlato in tempi non sospetti, questo l’articolo per approfondire), russi (chiaramente la maggioranza secondo la campionatura del 2007) e Chakassi. Infine è da menzionare una piccolissima rappresentanza dei Tedeschi del Volga.
Gli Evenchi abitano quell’area da moltissimo tempo. Eppure è solo dal XVII-XVIII secolo che, venendo a contatto con i russi, essi hanno assimilato peculiarità culturali tipiche dell’Occidente. Una tra tutte: il Cristianesimo ortodosso. La fotografia scattata il primo giorno dell’anno 1964 magari non dirà tutto ciò, ma è comunque un’istantanea lontana nel tempo e nello spazio, capace di restituire a noi, esseri umani del presente, la splendida diversità che caratterizza questo mondo. Verità incontrovertibili, anche nel freddo siberiano, anche durante cortei funebri partecipati più da renne che da persone.