Fotografia di anonimo, via Isidoro Carini, Palermo, 4 settembre 1982. In quel cartello bianco, sul quale campeggia la scritta simbolica, schietta ed amara, risiede tutto il cordoglio del popolo siciliano, o meglio, di tutti coloro che credevano e credono fermamente nel valore della lotta al cancro mafioso. “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti” non è una frase di semplice – per quanto semplice, una protesta, non lo sia mai – rivendicazione, di contrarietà palesata contro uno Stato giudicato attendista, impedito dinnanzi la necessità, sordo di fronte le richieste di chi quel flagello lo stava combattendo e per il quale ha dato la vita.
Un giorno prima della comparsa di quel manifesto, il 3 settembre 1982, in via Isidoro Carini perdevano la vita il prefetto di Palermo e generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e la scorta Domenico Russo. Vite strappate dalla becera violenza stragista. Cosa Nostra fu la matrice dell’accaduto, la stessa Cosa Nostra che il generale Dalla Chiesa fronteggiava “ufficialmente” dal 1966.
Tra le tante cose, a lui si dovette la creazione del “Nucleo Speciale Antiterrorismo“. Attivo nel biennio 1974-76 e nuovamente dal ’78 fino all’alba degli anni ’90. Portarono la sua firma numerose disposizioni atte a contrastare il fenomeno malavitoso in tutte le sue accezioni (banditismo, brigatismo, cosche mafiose).
Ciò che accadde la sera del 3 settembre 1982, quando sembrò svanire la fiducia nelle istituzioni per quei “palermitani onesti” (allegoria applicabile al popolo italiano tutto), fu un colpo al cuore della Repubblica Italiana. I colpi delle AK-47 che dilaniarono materialmente l’Autobianchi A112, simbolicamente perforarono lo scudo posto a difesa dell’integrità statale. I vari Riina, Provenzano, Greco, Madonia, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Geraci, mandanti dell’eccidio, si vendicarono di quel “fastidio” creato dal generale Dalla Chiesa. Per questo fece male al cuore di tanti; perché non sembrò che lo Stato avesse fatto abbastanza per evitare l’evitabile.
All’indomani della strage di via Carini, quando si svolsero i funerali, la voce del popolo non mancò all’appello. La protesta prese di mira le presenza politiche giunte a Palermo per rendere onore al generale. Volarono insulti e monetine. In qualche caso si giunse quasi allo scontro fisico. La tensione altissima non fu certamente smorsata da un’affranta Rita Dalla Chiesa. La figlia tragicamente orfana di madre e padre non accettò che davanti il feretro ci fosse la corona di fiori della Regione Sicilia. Chiese ed ottenne l’apposizione del tricolore, della sciabola da generale, del berretto e delle dovute insegne.
Altro non serviva, perché quello fu il giorno in cui a farla da padrona fu la mestizia della folla. Giovanni Falcone, altro nome illustre assieme a quello di Borsellino per la tematica trattata, avrà da dire in merito alla strage: “In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Mai parole furono più vere.