Fotografia di James Nachtwey, Ruanda, giugno 1994. Un uomo di etnia Hutu mostra le sue cicatrici al personale della Croce Rossa operativo presso l’ospedale di Nyanza. Lo scatto raffigurante l’uomo in questione, di cui non si conosce l’identità, divenne il simbolo della crudeltà imperante durante i cento giorni del genocidio in Ruanda. L’episodio fu uno dei più violenti e sanguinosi dell’intero XX secolo, tuttavia ancora oggi soffre di una parziale trascuratezza manifestata da una grande fetta dell’opinione pubblica mondiale. Ciò è dovuto largamente alle coordinate geografiche, nonché al contesto culturale in cui l’indicibile massacro trovò piena espressione. Con un singolo scatto Nachtwey racconta una storia tanto surreale da sembrare frutto di una perversa immaginazione. No, è la spietata realtà.
Per comprendere a pieno le dinamiche che contraddistinsero il bagno di sangue avvenuto tra il 6 aprile e la metà di luglio del 1994 sarebbe necessario un approfondimento sul trascorso coloniale del Ruanda. La dominazione prima tedesca (Deutsch-Ostafrika, 1884-1919) e successivamente belga (amministrazione fiduciaria, 1919-1959) acuì e in un certo senso “fondò” i contrasti sociali ed interetnici interni al paese. Due erano i gruppi etnici prevalenti, ossia gli Hutu (75% della popolazione totale) e i Tutsi (circa il 20%). Dopo l’indipendenza dal Belgio, i primi divennero la classe politicamente dominante del Ruanda. Al contrario i secondi furono estromessi dalle logiche del potere, alle quali erano stati abituati negli anni della dominazione coloniale.
Il 6 aprile 1994 l’aereo dell’allora presidente Juvénal Habyarimana, di etnia Hutu e al potere dal ’73 con un governo a tinte dittatoriali, fu abbattuto da un missile terra-aria. Gli Hutu più intransigenti interpretarono l’atto come una chiara ostilità da parte dei Tutsi. In nome di una vendetta trasversale, iniziarono i massacri perpetrati a danno dei Tutsi e degli Hutu moderati.
I carnefici avevano un nome: FAR (Forze Armate Ruandesi) e milizie paramilitari Interahamwe e Impuzamugambi. Il genocidio in Ruanda – che per questione di tempo e spazio ho esemplificato all’osso e per questo chiedo perdono, promettendo di dedicare un approfondimento sulla questione – costò la vita ad un numero spaventoso di persone. Nei già citati cento giorni, perirono dai 500.000 al 1.000.000 di individui. Le caratteristiche dello sterminio furono quelle della programmaticità, della pianificazione ed infine della capillarità esecutiva.
Vittima tra le vittime, l’uomo dietro l’obiettivo di James Nachtwey incarna la brutalità dell’evento. Le cicatrici, motivate da una sua presunta collaborazione con i ribelli Tutsi e causate dall’utilizzo del machete, vanno oltre il simbolico, assolvendo al misero compito del paradigma. Perché altro non sono ed è ciò che l’adulto comunica pur non parlando (impossibilitato com’è dagli sfregi).
La testimonianza orale di Nachtwey arricchisce quella visiva. Il fotografo si è soffermato in più di un’intervista sulla tensione di quell’istante. Al momento dello scatto l’uomo aveva conosciuto la libertà da poco, dopo aver trascorso delle settimane internato in un campo di prigionia Hutu. Egli manifestava grandissima difficoltà nel camminare, parlare e deglutire. L’apprensione era tantissima, facilmente palpabile.
Non penso sia necessario concludere con una frase moralistica o con delle parole ad effetto. Basta l’immagine di James Nachtwey. Essenza di un male scellerato.