Fotografia di anonimo, Plaza de las Tres Culturas, quartiere di Tlatelolco, Città del Messico, 2 ottobre 1968. Soldati dell’esercito attendono ordini dagli ufficiali mentre sono di stanza nella piazza che di lì a poche diverrà il tetro sfondo di una delle pagine più oscure e violente della storia contemporanea messicana. Quel 2 ottobre del Sessantotto messicano verrà in seguito ricordato come il “massacro di Tlatelolco“.
Un luogo qualunque, ma solo per chi ignora la storia cinquecentesca dell’America centrale. Di sangue le rovine di Tlatelolco ne avevano visto scorrere a fiumi nell’agosto del 1521, quando i conquistadores, forti di un non secondario sostegno indigeno, commisero uno spaventoso eccidio. Morirono per l’occasione più di 40.000 mexicas (aztechi). Con quell’evento solitamente si indica il termine ultimo della guerra di conquista spagnola. Mezzo millennio dopo, un’altra indicibile carneficina avrebbe macchiato la memoria del posto.
Il Sessantotto non risparmiò il Messico, che ribollì nei mesi precedenti alla strage. Proteste studentesche e operaie scoppiarono ovunque nel paese. Centro catalizzatore del malumore civile fu ovviamente Città del Messico. Il tutto era amplificato dalla più grande manifestazione sportiva a livello globale che di lì a poco si sarebbe tenuta nella capitale: la XIX edizione dei Giochi Olimpici.
Solo per comprendere l’entità del movimento: 200.000 studenti manifestarono in Piazza della Costituzione il 27 agosto di quell’anno, salvo poi essere dispersi dall’esercito. Il presidente Gustavo Díaz Ordaz – in carica dal 1964 al 1970 – optò per il pugno duro contro ogni forma di dissenso politico. Dietro il suo personale consenso le forze dell’ordine commisero violenze indiscriminate contro la folla contestatrice. Esemplare fu la vicenda del campus dell’UNAM (Università nazionale autonoma del Messico), occupato dagli agenti per randellare gli studenti ivi presenti. La violenza non fece altro che alimentare la protesta studentesca.
Si arrivò attorniati da questo clima al 2 ottobre 1968. Da più di due mesi era in atto lo sciopero universitario e 15.000 studenti quel giorno manifestarono per le strade della capitale. Di quel folto gruppo, un terzo decise di accamparsi in Plaza de las Tres Culturas, nel quartiere popolare di Tlatelolco. Erano per lo più lavoratori e studenti, molti dei quali accompagnati dalla famiglia. Al tramontare del sole la situazione poteva dirsi certamente tesa, ma nulla lasciava presagire ciò che sarebbe successo di lì a poco. La fotografia attorno la quale ruota l’intera narrazione descrive proprio ciò: una calma apparente prima di un immane spargimento di sangue.
Quando la notte sopraggiunse uno strano movimento di blindati e camionette insospettì i manifestanti. In men che non si dica, i mezzi ostruirono le arterie stradali che collegavano la piazza al resto della città. Le forze di contenimento pubblico, coadiuvate dall’esercito, aprirono il fuoco contro i civili accampati. L’inferno si concretizzò in pochi istanti. Un mucchio di corpi esanimi velocemente si ammassò al centro della piazza. Il massacro di Tlatelolco non aveva risparmiato nessuno. Le autorità diranno in seguito di aver “risposto al fuoco dei facinorosi armati”, ma qualunque canale d’informazione indipendente smentì la cosa all’indomani del brutale episodio.
A notte inoltrata i camion dell’immondizia iniziarono a ripulire Plaza de las Tres Culturas dai corpi delle vittime su ordine delle forze dell’ordine. Il governo fornì le prime stime sul numero di morti, parlando prima di 30, poi di 50 decessi. Numeri molto più attendibili parlano di 300/400 vittime, tutte tra i manifestanti.
Tra i feriti ci fu un’italiana, la giornalista fiorentina Oriana Fallaci. Una raffica di proiettili proveniente da un elicottero la colpì in pieno mentre si trovava su un palazzo antistante la piazza. Creduta morta, venne trasportata in obitorio. Fu in quella sede che un prete si rese conto dell’errore dei primi accertamenti: la donna era ancora viva. La Fallaci descrisse in questi termini la strage di Tlatelolco: «un massacro peggiore di quelli che ho visto in guerra».
Lo sconcerto internazionale non bastò e il governo messicano se ne lavò le mani. Nel 1997, ben 29 anni dopo gli eventi, si formò una commissione d’inchiesta per l’accertamento dei fatti. Dal lavoro della commissione sono emerse sconcertanti (eppure attese…) rivelazioni:
- L’allora Segretario del Governo (successore di Gustavo Díaz Ordaz alla presidenza) Luis Echeverría ammise di fronte il comitato come non ci fu nessuna provocazione armata da parte dei manifestanti e come l’unico obiettivo delle autorità fosse, in quel 2 ottobre 1968, il totale annichilimento del movimento studentesco.
- Grazie alla desecretazione di documenti redatti dalla CIA, dal Pentagono, dal Dipartimento di Stato e dall’FBI, si provò la compartecipazione degli Stati Uniti d’America, attraverso metodi indiretti quali il finanziamento e la fornitura di materiale bellico (nello specifico armi, munizioni, attrezzature di addestramento antisommossa).
- Il gabinetto Diaz Ordaz cercò si sfruttare i disordini per incriminare gli oppositori politici, accusandoli di voler sovvertire l’ordine democratico e di desiderare l’instaurazione di un regime dittatoriale di matrice comunista. Accuse che, come dimostreranno i fatti, furono pressoché pretestuose.