Fotografia anonima, Hiroshima (Giappone meridionale), 1945. Uno scatto in bianco e nero racchiude tutto l’orrore di quel giorno. Al di sotto di quella fitta e oblunga nube vi è, o meglio, vi era una rigogliosa cittadina del Giappone meridionale. Una cittadina come tante altre e che come molte altre anche quella mattina si era svegliata nella solita routine quotidiana. Nonostante il fatto che la guerra si stesse combattendo ormai sul suolo nipponico, Hiroshima ne aveva subito in maniera minore gli effetti. O almeno, fino alle 8.15 del 6 agosto 1945. Fino a quando un boato assordante non cancella tutto di colpo. E poi quel fungo atomico che oscura il sole.
Il contesto storico è noto. Siamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nonostante la sconfitta di Italia e Germania, il Giappone ancora non intende arrendersi. La cecità della classe dirigente impone al Paese di proseguire un conflitto ormai perso. L’agonia nipponica viene prolungata di diversi mesi attraverso, ad esempio, il sacrificio di numerosi giovani soldati suicidi, i kamikaze, che si schiantano assieme ai loro aerei carichi di esplosivo sulle navi americane, spesso senza grossi risultati. All’inizio di agosto 1945, ben quattro mesi dopo la resa incondizionata tedesca, Tokyo ancora rifiuta categoricamente gli inviti statunitensi di cessare le ostilità.
L’amministrazione Truman decide quindi che sia giunto il momento di scatenare quell’arma. Un’arma di una forza distruttiva inaudita, mai vista nella storia dell’uomo. Un’arma capace in un solo istante di spazzare via una cittadina e di uccidere migliaia di persone. Della sua potenza ne sono consapevoli a Washington. Sono consapevoli di quante vite innocenti saranno spezzate in pochi secondi. Ma sono convinti che sia necessaria per convincere il Giappone ad accettare la resa. Sono convinti, in pratica, che i morti innocenti della bomba servano ad evitarne altri in un numero decisamente maggiore. Ma dietro si cela anche una volontà di potenza, la volontà di mostrare al mondo, e in particolare all’Unione Sovietica, intero il vigore dell’apparato militare statunitense.
Il dado è tratto, non si torna più indietro. L’Enola Gay, l’aereo con a bordo l’ordigno nucleare, decolla dall’isola di Tinian, nell’arcipelago delle isole Marianne, a sud del Giappone. Raggiunto l’obiettivo, rilasciano la bomba, che inizia la sua fatale discesa sulla cittadine nipponica. Passano diversi interminabili minuti. I piloti statunitensi fanno il conto alla rovescia. Ed ecco il boato. Ora Hiroshima non esiste più. Esiste solamente quell’imponente fungo atomico che simboleggia la desolante e deumanizzate distruzione di quel bombardamento. Un fungo atomico che se oggi dovesse nuovamente alzarsi in cielo, simboleggerebbe invece la fine dell’intera civiltà umana.