Fotografia di Boris Abelevich Kaufman, villaggio di Untsukul, Repubblica Socialista Sovietica Autonoma del Daghestan, dicembre 1972. Un’anziana signora, dal volto vistosamente rugoso, marcato dal tempo che scorre, osserva insospettita ciò che la circonda.
Boris Kaufman, figlio d’arte, fotografo russo ma statunitense d’adozione, ci ha insegnato che dietro le piccole storie, minuscole se confrontate al grande corso degli eventi, si nasconde sempre un valido insegnamento. Perciò da una foto come quella scattata alla “vecchia eroina” (definita così all’epoca dal fotografo e dall’agenzia di stampa per la quale lavorava) del Daghestan sovietico, si possono ricavare tante informazioni inerenti i più disparati argomenti. Cercherò di farlo nelle seguenti righe.
Un ritratto, quello di “Patima” (nome assegnato d’ufficio alla signora dall’allora regolamento sovietico in tema di scatti fotografici a cittadini dell’URSS), che garantirà a Kaufman il secondo posto nei World Press Photo awards del 1973 per la categoria “profili”. L’autore ci racconta i retroscena dell’iconica immagine.
All’epoca Boris Kaufman lavorava RIA Novosti (talvolta nota con l’acronimo APN), l’agenzia di stampa moscovita erede del Sovinformburo, nonché principale organo d’informazione statale per le questioni interne. In una fredda invernata del 1972 l’APN inviò Kaufman nel profondo Daghestan per un ordinario reportage sulle sfide che riservava uno stile di vita rurale.
Così il fotografo partì alla volta del lontano e perché no, sperduto Daghestan, probabilmente la più povera delle repubbliche socialiste sovietiche facenti capo a Mosca. Vicino alla periferia di Untsukul, villaggio dell’entroterra, Kaufman incrociò lungo la strada una signora anziana, eppure scattante nell’andamento. Ciò che rendeva quella figura così piccola, ingobbita, ricurva sulla sua unica e malconcia stampella di legno, era proprio l’energico passo con cui si apprestava a lasciare il villaggio. Il “soggetto giusto”, pensò Kaufman. Quest’ultimo fece scattare l’otturatore della macchina fotografica; un rumore troppo netto e “fuori dall’ordinario” per non insospettire l’arcaica donna.
Lei si girò e puntò dritto verso l’inviato di RIA Novosti, il quale – con riflessi felini, c’è da dirlo – scattò la foto di cui sopra. Eccolo dunque, il volto raggrinzito della vecchiaia, i segni nobili di un tempo andato, tracce dell’ineluttabilità. Un banale ritratto, potrebbe sostenere qualcuno. Eh no, o almeno, non per il sottoscritto e gli amanti della fotografia come pura forma d’arte.
Vi spiego anche perché, concretizzando l’assist fornito dalla storia dietro l’immagine. Come Boris Kaufman dichiarerà in seguito (in un’intervista rilasciata quando già viveva negli States), al tempo la norma giornalistica prevedeva l’assegnazione di un nome – laddove non ve ne fosse uno – a quegli individui che, in un certo senso, rappresentavano lo spirito del cittadino sovietico. Dall’operaio al contadino, dal soldato alla casalinga, dove non vi era un nome, doveva essere apposto da qualcuno. Per la signora, Kaufman scelse quello di “Patima”.
Patima, con quel passo svelto e con quella stampella funesta, ha scritto una piccola ma bellissima pagina di storia della fotografia. Il tutto da un villaggio sperduto del Daghestan sovietico. Sarò pazzo io, ma lo trovo strepitoso.