Fotografia di Ramesh Shukla, Dubai, 1979. Un cammello nel deserto e alle sue spalle l’edificio più alto del Medio Oriente al tempo dell’inaugurazione: la torre dello sceicco Rashid. Una volta lo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktum, attuale emiro di Dubai nonché vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti, disse in un’intervista come “impossibile è una parola usata da alcune persone che hanno paura di sognare in grande”. Certo che sognare con 14 miliardi di dollari in tasca deve essere leggermente più semplice.
Mohammed Al Maktum è il sovrano assoluto dell’Emirato di Dubai, di cui la capitale è l’omonima città. Pronunciare il solo nome oggi lascia volare l’immaginazione fra infrastrutture futuristiche, lusso sfrenato e miracoli dell’ingegneria contemporanea. Eppure non è sempre stato così. C’era un tempo in cui si diceva “Dubai” e il più bravo della classe non sapeva se fosse il nome di un qualche personaggio storico mediorientale o al massimo un termine arabo dall’indecifrabile significato. Ma se il più bravo della classe fosse stato dotato di un’intelligenza fuori dal normale, avrebbe sicuramente indicato sulla cartina geografica appesa sul muro quel lembo di terra affacciato sul Golfo Persico. Lì sorgeva un villaggio di pescatori, regionalmente rinomato come scalo commerciale per le merci iraniane e per i mercati delle perle, reperite in loco.
Quel villaggio non era piccolissimo, faceva comunque più di 45.000 abitanti (la stima è del 1957). Aveva un porto e nulla più. Quando nel 1958 Rashid bin Sa’id Al Maktum divenne emiro, si rese protagonista in prima persona di una radicale trasformazione della città. Il sovrano sognava una Dubai polo commerciale di primo ordine, almeno nell’area geografica di competenza. Egli sfruttò le entrate delle attività commerciali per costruire infrastrutture. Concesse in appalto a società private la gestione dei servizi essenziali. Nei primi anni ’60 a Dubai si iniziarono a vedere le prime strade asfaltate e le prime auto, una piccola pista d’atterraggio che qualcuno osava chiamare “aeroporto”. Addirittura qualche privilegiato poté usufruire di elettricità e telefonia.
Anche Dubai ebbe il suo anno spartiacque, l’anno che fece diventare il villaggio di pescatori una metropoli da tre milioni e mezzo di abitanti, così come si presenta odiernamente. Quell’anno è il 1966, quando dei rilevamenti esplorativi stabilirono come al largo della cittadina ci fosse un pozzo petrolifero di cospicue dimensioni. Gli sceicchi chiamarono il giacimento “Fateh“, ossia “buona fortuna”. La fortuna, sotto forma di sonante moneta, sopraggiunse eccome. Da lì la trasformazione che tutti abbiamo in mente. Testimone di quella prima rivoluzione economica, commerciale, urbanistica e tecnologica fu Ramesh Shukla, fotografo alle prime armi di Mumbai.
Shukla nel 1965 raggiunse una vivace Dubai, ancora all’indomani del boom petrolifero. Del fotografo, autore dello scatto su cui ci soffermeremo a breve, abbiamo un’intervista dei primi anni 2000. Nella sopracitata egli afferma: “Arrivai con 50 rullini e la mia macchina fotografica. Ad accogliermi il nulla, se non qualche palazzina in costruzione. Non c’era niente. Non c’erano strade propriamente dette ma solo sabbia a perdita d’occhio. Ebbi la sensazione di vivere in una città pre-moderna, dove nelle abitazioni tipo non vi era presenza d’acqua corrente ed elettricità. Quella era la vita. Molto semplice, quasi essenziale. Ho iniziato a catturare quella vita”.
Con un po’ di fortuna e duro, anzi, durissimo lavoro, Shukla si affermò come fotografo. I suoi scatti raccontarono – e continuano a raccontare ancora oggi – un’epoca di totale mutamento. Scattò lui le fotografie agli emiri riuniti nel 1971 in occasione della fondazione degli Emirati Arabi Uniti.
Ma è anche suo il famosissimo scatto del cammello e il grattacielo, datato 1979. Nella fotografia possiamo ammirare il contrasto per eccellenza: quella che per millenni è stata l’ordinarietà per i beduini di passaggio a Dubai e lo sfondo, prodromo della nostra concezione di normalità nell’immaginare la città emiratina. Il cammello cerca di imporsi come monumento alla tradizione, ma la torre alla sue spalle, inizialmente nota come Sheikh Rashid Tower, campeggia senza avversari degni. Sì perché allora, nel ’79, era non solo l’edificio più alto della città, ma dell’intero Medio Oriente. Con lo spuntare di altri grattacieli, centri commerciali ed edifici finanziari, l’area prese il nome di Dubai World Trade Center.
Eccola, fulgida nella sua essenza, la generica impossibilità di chi non ha 14 miliardi di dollari di patrimonio stimato ma solo un cammello, qualche coperta e poche merci da barattare. Sognare in grande, diceva il vecchio saggio…