Fotografia di Ed Kashi, Diyarbakır, Turchia sud-orientale, 16 settembre 1991. Un tribunale speciale turco giudica questa donna colpevole di essere affiliata al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). La sentenza è dura: 12 anni e mezzo di prigione. Il fotografo Ed Kashi, quel giorno presente nell’aula del tribunale di Diyarbakır, dirà questo del processo: “La sua immagine è il simbolo della delusione, dell’orgoglio e della rabbia del popolo curdo, privato della libertà”.
Il fotoreporter sociopolitico Ed Kashi, classe 1957, di New York, nel corso della sua lunga carriera si è avvicinato in modo rilevante alla questione curda. Celebre, almeno nell’ambiente professionale di riferimento, è l’Iraqi Kurdistan flipbook, un folioscopio nato da un lavoro certosino e pubblicato nel 2006 per sensibilizzare sulla delicata condizione del popolo curdo al confine tra Turchia e Siria. Una delle fotografie più note di Kashi è quella di cui sopra, sulla quale si possono fare un gran numero di considerazioni e riflessioni, non solo di carattere politico e sociale.
Non è affatto difficile notare la netta differenza tra gli sguardi delle autorità turche e quello della donna. Il mento alto, a voler comunicare consapevolezza, senso della dignità personale. Gli occhi degli uomini in uniforme invece trasmettono un sentimento misto tra il disprezzo e l’insofferenza, anche se è facile percepire dell’irriducibile noia nel portamento di alcuni. Un contrasto tagliente, riflesso della situazione nel Kurdistan nord-occidentale (dunque Kurdistan turco, dove il PKK è molto attivo).
Lo si è nominato, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, senza specificare cosa sia. Rimedio subito. Il PKK è un’organizzazione politica e paramilitare presente sull’altopiano del Kurdistan. Esso mira alla fondazione di uno Stato indipendente in un’area incastonata tra Turchia, Siria, Iraq ed Iran. Non proprio la cosa più semplice da fare in Medio Oriente. Originariamente il PKK salì alla ribalta, a fine anni Settanta, come movimento di ispirazione marxista-leninista, dotato tanto di un corpo politico quanto di un rifornito braccio armato. L’anima politica così demarcata si è svuotata col tempo. Oggi l’organizzazione è un mix di ideologie politiche, talvolta divergenti tra loro, accumunate dall’unico obiettivo di dar vita ad un Kurdistan indipendente e globalmente riconosciuto.
Il panorama politico e diplomatico internazionale è abbastanza spaccato sul come approcciare la questione del popolo curdo. Esiste una bella fetta di paesi che, per opportunismo strategico, deve considerare gli affiliati del PKK in qualità di forze sovversive e criminali. Solitamente questi sono i paesi che coltivano stretti legami d’amicizia con la Turchia, nemica giurata dell’organizzazione. Al contempo è da sottolineare come vi sia un largo campo di Stati che invece non riconoscono i membri del PKK come terroristi: rientrano in questa categoria Russia, India, Cina, Egitto, Svizzera, Brasile, addirittura l’ONU. La controversia sta tutta qui.
Ma andando oltre il paradosso geopolitico, che pure esiste e non va ignorato, colpisce della fotografia l’impatto emotivo che riesce a trasmettere. I termini utilizzati nel titolo e che vanno a parafrasare il discorso del fotoreporter calzano a pennello con l’interpretazione della fotografia. Delusione, orgoglio e rabbia di una donna, emblema in quel settembre 1991 del popolo curdo. Appunto, simbolo di un processo che, se astratto dalle aule del tribunale turco di Diyarbakır e trasposto sulla scena internazionale, mostra tutte le incongruenze del mondo in cui viviamo.