Se c’è una cosa che impariamo abbastanza in fretta, leggendo la vita e studiando le imprese di Federico II di Svevia, è che il suo rapporto con la Chiesa non fu mai qualcosa di semplice e lineare, tutt’altro. Sorvolando su questioni come la crociata mancata, il dominio di Gerusalemme e le scomuniche accumulate come fossero punti della spesa (cose di cui vi abbiamo parlato in precedenza), possiamo riassumere il contrasto perenne tra lo Stupor Mundi e Roma attraverso la narrazione della nota congiura di Capaccio, del 1245-46.
Facciamo partire la nostra storia dal 1243. Dopo due anni di assidua ricerca cardinalizia, venne eletto al soglio pontificio Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna, alias Innocenzo IV. Il nuovo vescovo di Roma, seguendo un copione già scritto ed interpretato dai predecessori, convocò un concilio, discusse sulle malefatte di Federico e, senza batter ciglio, lo scomunicò in quanto apostata e traditore. Insomma, nulla di nuovo. Le disposizioni di Lione – sede conciliare – giunsero presto all’orecchio dello svevo. Oltre a queste, anche qualche voce di congiura.
Federico II volle vederci chiaro e recandosi nei pressi di Parma, scoprì quanto temuto: il Papa era riuscito a convincere molti nobili, fedelissimi alcuni, della necessità di deporre l’imperatore, o meglio, l’anticristo. Colto da una lieve e giustificata depressione, l’inverno tra il 1245 e il 1246 Federico lo trascorse in una tenuta di caccia non lontana da Grosseto. Urgeva una fase di meditazione e ragionamento, perché il da farsi era gravoso. Durante questo ritiro, uno dei congiurati si pentì e informò il conte di Caserta, Riccardo Sanseverino, stretto collaboratore dell’imperatore, della macchinazione papale.
Oltre a ciò, truppe romane si mossero in Umbria per valicare i confini imperiali. Federico II si convinse in aprile di dover agire, e anche in fretta. L’imperatore attaccò il Cilento con una folta parte del suo esercito. In zona si nascondevano molti dei congiurati, tutti arroccati nelle principali fortificazioni. Caddero Sala Consilina e Altavilla Silentina, precedendo Capaccio: l’ultimo baluardo per i cospiratori.
Tagliando fuori gli assediati dalle riserve idriche, Federico costrinse quei ribelli ad uscire allo scoperto. L’autorità imperiale, forte dei dettami del diritto romano (da poco introdotto nei domini siciliani), punì i congiurati di Capaccio come fossero parricidi. Assassini del loro stesso padre, il quale li aveva accuditi, favoreggiati, condotti al successo. Il parricidio era un atto contronatura e perciò, avvalendosi del contrappasso, doveva essere punito tramite i 4 elementi naturali: l’acqua, il fuoco, il vento e la terra. Essi divennero l’inferno.
Applicando la lex pompeia, le guardie federiciane mutilarono i colpevoli, li sfregiarono in ogni modo, li accecarono con tizzoni ardenti. Ma non ci si limitò solo a questo: impiccagioni, roghi, uomini trascinati da cavallo fino alla morte. Dei 150 congiurati di Capaccio, nessuno sopravvisse. L’episodio colpì l’imperatore nell’animo, tanto da crucciarlo fino al 1250, anno della sua dipartita, la dipartita dello Stupor Mundi.