A quasi cinque anni dall’Unità, l’Italia aveva voglia di sedersi al tavolo dei grandi atteggiandosi come tale. Sebbene non avesse le medesime disponibilità economico-industriali, militari e amministrative delle potenze alle quali mirava come modelli, alcune imprese risultarono comunque degne di nota (almeno per il nostro piccolo e arretrato universo). Su una in particolare vorrei concentrare la mia e la vostra attenzione: la missione diplomatica, commerciale ed esplorativa della nave Magenta, la quale, impiegando 870 giorni nel triennio 1865-68, sarebbe stata la prima nave italiana a compiere il giro del mondo.
A capo della spedizione fu posto il capitano di fregata Francesco Vittorio Arminjon, uno dei pochi sabaudi a potersi dire “ferrati” nella navigazione – non una cosa scontata, come ben sappiamo. Sotto di lui si poteva riscontrare una composita formazione di ufficiali di marina, scienziati, geografi e mozzi. Incastonata in un’epoca di grandi cambiamenti (l’inaugurazione del Canale di Suez e l’ampliamento della cosiddetta “diplomazia globale”), la più ardita delle missioni organizzate e compiute della Regia Marina avrebbe certamente suscitato clamore e speranze nella piccola e borghese opinione pubblica del giovanissimo Stato.
Arminjon e compagnia partirono dal porto di Napoli a bordo della Regina l’8 novembre 1865. Compiuta la traversata atlantica, sarebbero giunti in Uruguay, presso Montevideo, nel febbraio dell’anno successivo. Stazionata nel porto uruguagio li aspettava la pirocorvetta Magenta. Si trattava di una nave da guerra destinata all’esplorazione e alla comunicazione d’alto mare (corvetta), munita di apparato propulsore a vapore (piro), oltre alla tradizionale attrezzatura velica. Altre caratteristiche dell’imbarcazione erano: uno scafo in legno, carena di lastre in rame e 20 cannoni. Poteva raggiungere i 10 nodi di velocità. Fu il Granducato di Toscana a volere la realizzazione del vascello nel 1859. Il mastodontico veliero, forte dei suoi 67 metri di lunghezza e delle sue 2552 tonnellate di stazza, entrò successivamente a far parte della neonata marina unitaria.
La Magenta e il suo equipaggio si incontrarono a ridosso del Rio della Plata. Levate le ancore si salpò per la grande avventura. In tre mesi circa la pirocorvetta raggiunse Batavia (oggi Giakarta), poi Sumatra, Singapore e Saigon. Tappe in cui la squadra di naturalisti raccolse grandi quantità di materiale animale e vegetale da poter riportare in patria. Le fruttuose ricognizioni sorpresero persino gli stessi scienziati, per nulla abituati a quel grado di ricchezza e diversità. Tra giugno e luglio 1866 Arminjon raggiunse “l’oggetto supremo” – così era scritto nelle istruzioni governative – della spedizione: il Giappone.
Ospitati a Yokohama, il capitano e una squadra di diplomatici scesero per discutere con i funzionari shogunali, fedeli a Yoshinobu. In men che non si dica si raggiunsero accordi fruttuosi per entrambi i paesi. Risale all’estate del 1866 il primo trattato commerciale italo-giapponese. Di quei cinquanta giorni trascorsi nell’arcipelago nipponico sono curiosissime le pagine di diario scritte da Filippi e Giglioli, sociologi e naturalisti di spicco. Entrambi si sforzarono di comprendere l’intricata società giapponese, tra l’altro nel suo momento più critico perché attraversata da una fase di enorme cambiamento. Erano pur sempre gli anni dell’ammodernamento forzato e dell’apertura globale imposta. Giglioli a tal proposito scrisse: “Il Giappone è un paese ancora pieno di misteri per noi che ora vanno complicandosi più e più. Per l’energia di carattere, industria e amore del progresso, i giapponesi possonsi con ragione chiamare inglesi dell’Asia”.
Dal Giappone la pirocorvetta salpò nuovamente alla volta della Cina. Con il Celeste Impero si firmò un altro trattato grazie al quale si sottoscriveva l’apertura di ben nove porti agli italiani. Poi fu la volta dell’Australia e della Nuova Zelanda, terre che impressionarono soprattutto per la singolarità paesaggistica. La marcia della Magenta prevedeva l’attraversamento dello stretto di Magellano, forse il momento più temuto dall’intero equipaggio. Il capitano Arminjon però seppe destreggiarsi e superarlo quasi senza problemi. Ebbe anche il tempo di denominare qualche isola qua e là (isola Giglioli, baia Arminjon, caleta Sabauda, isola Cavour e La Marmora).
Il 28 marzo 1868 la Magenta venne accolta festosamente dal porto all’ombra del Vesuvio. Il giro del mondo in 870 giorni, il primo per un’imbarcazione italiana, era terminato. L’esito scientifico fu sensazionale, vista la raccolta d’informazioni e materiale in ambito geografico, naturalistico, meteorologico e antropologico. Giglioli riportò con sé 5.986 reperti di animali appartenenti a oltre 2.000 specie. Oggi è tutto conservato nel Museo di scienze naturali di Torino.
Affatto secondario fu il bottino politico e diplomatico. Il Regno d’Italia poteva vantare con il Giappone un redditizio trattato (ad essere puntigliosi 23 articoli, 6 regolamenti commerciali e una convenzione addizionale) grazie al quale degli operatori nostrani potevano risiedere e commerciare nei poli economici prestabiliti dall’autorità nipponica. Quella missione sarebbe stata la prima di tante altre, le quali, in ultima analisi, sancirono un importante avvicinamento tra la penisola al centro del Mediterraneo e l’arcipelago del Sol Levante. Come riportato dal professor Manzetti: “Gli scambi commerciali raggiunsero il valore di 2,5 milioni di dollari d’argento e l’Italia fu scelta come prima tappa europea della famosa missione militare del generale Oyama. Furono visitate le fabbriche d’armi di Napoli, Torino, La Spezia e qualche tempo dopo furono richiesti dal governo giapponese esperti e materiali per l’organizzazione dell’arsenale di Osaka, I telemetri scelti per le artiglierie nipponiche furono realizzati dalla Galileo di Firenze”.
Eppure molti dei progetti ideati in quella stagione permasero solo su carta, senza trovare concretizzazione pratica. L’Italia, storicamente paese di navigatori e trasmigratori, non seppe sfruttare al meglio l’idrovia aperta nel 1869 a Suez. Il Bel Paese, guidato da una classe politica sorda di fronte alle proposte della modernità, non tenne il passo delle vicine (ma lontanissime) potenze europee e si perse nelle complesse ed ingarbugliate – seppur importantissime, non fraintendetemi – questioni interne.