A Venezia esiste un detto molto particolare che suona più o meno così “Te fasso veder mi, che ora che xe” ovvero “Ti faccio vedere io, che ora è”. Dovrebbe essere una specie di minaccia e in effetti lo è, soprattutto se si conosce la storia dietro il modo di dire. Queste parole si riferiscono al fatto che i condannati a morte della Serenissima venissero posti alla gogna tra le colonne di San Marco e San Todaro, con lo sguardo rivolto alla Torre dell’Orologio, in Piazza San Marco. L’ultima cosa che i loro occhi avrebbero visto, ovvero l’ora. Quei poveri disgraziati però non erano soli, bensì in compagnia (sempre per poco tempo…) del boia.
Una figura particolare, anzi, particolarissima in uno Stato che per secoli ha fatto della propria immagine uno stendardo da presentare al mondo. A Venezia, più d’altrove, le esecuzioni dovevano garantire spettacolo, intrattenimento, emozioni. Questo compito gravava sulle spalle del boia, ma chi era costui?
Poteva essere uno straniero, come il noto dalmata Girolamo da Capodistria o il romano Francesco Ravenna. Poteva essere a sua volta un prigioniero, in alcuni casi addirittura condannato a morte, come tale signor Albanesetto. Quest’ultimo fece il boia per ben 4 anni prima di andare in contro allo stesso destino fino ad allora riservato ad altri sfortunati. Per evitare la fuga dell’uomo, l’autorità della Repubblica lo faceva girare con un cordone legato alla caviglia. Non scappò mai. Diversa (ma neanche troppo) la sorte di Giuseppe da Mantova, il quale nel 1728 da carnefice-carcerato tentò la fuga; il tentativo rimase tale perché le guardie veneziane lo acciuffarono e lo uccisero nel mentre.
Particolare la storia di Antonio Preto, il primo boia veneziano DOC del nostro racconto. Egli fu scoperto a fare il ricettatore per una banda di ladri, nonostante venisse ben pagato dagli Inquisitori di Stato, anche con diversi ducati ad esecuzione. I registri parlano chiaro: per la testa di tale Francesco Benedio nel 1717 il gentil Preto guadagnò ducati 12. Per intenderci, un certo Antonio Vivaldi, che male non stava a livello finanziario, viveva nella stessa epoca con 150 ducati l’anno. Mica pizza e fichi.
Poi sono curiosi alcuni aspetti di questo mestiere, aspetti che tuttavia accumunavano la gran parte dei carnefici di tutta Europa. A Venezia (ma anche nel resto della penisola) era proibito chiamarli per nome. Inoltre non si rendeva pubblica la locazione della loro casa – anche se oggi ne conosciamo diverse. Il lavoro in età moderna conobbe un’evoluzione ma è con l’arrivo di quei rivoluzionari dei francesi che il carnefice cambiò volto. Dall’inizio del XIX secolo si sarebbe chiamato Maestro di Giustizia e avrebbe compiuto il suo lavoro altrove… Con un po’ di privacy.
Il popolo veneziano non assistette più agli “spettacoli” nella tanto amata Piazza San Marco. Si accontentò di farlo nel monastero dei frati minori di San Francesco della Vigna, vicino all’Arsenale. Qualcuno protestò, veementemente anche. Con gli austriaci il luogo cambiò di nuovo ma già sotto la corona d’Italia le condanne diminuirono sensibilmente, fino a cessare ufficialmente nel 1886. Sì, è vero, QUALCUNO le fece tornare in voga tra il 1921 e il 1943, ma di fatto quel boia che tanto si era distinto durante gli anni d’oro della Serenissima, cessò di esistere già da molto, moltissimo tempo addietro. Ah, non passate tra le due colonne marciane, porta sfortuna.
Crediti: Boia, sicari e sbirri. I mestieri «neri» della Serenissima, Davide Busato.