Del mondo sapeva tutto, nonostante l’avesse magistralmente plasmato su carta mediante una sconfinata immaginazione. Il mondo di Emilio Salgari, che con immenso successo incanta e fa sognare centinaia di migliaia di lettori ancora oggi, a distanza di più di un secolo dalla scomparsa, si trovava sulla sua scrivania. Un difetto imperdonabile secondo pochi critici avversi, mentre per tanti stimatori quello era un pregio quasi divino. Quest’oggi voglio raccontarvi la storia di un uomo che ha sempre stuzzicato la mia curiosità, la vita del romanziere d’avventura italiano per antonomasia, illustre e prolifica penna del panorama letterario nostrano, autore d’altri tempi eppure squisitamente “contemporaneo” per stile di scrittura e tematiche trattate. Emilio Salgari, in poche parole!
Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgari nacque a Verona il 21 agosto 1862. Fin da piccolo coltivò una passione, a chiamarlo sogno non commette peccato: quello del mare. Il richiamo fu inevitabile nel 1878 quando all’età di 16 anni si imbarcò sull’Italia Una in veste di mozzo. Salgari infatti frequentava l’Accademia Nautica di Venezia e dalla laguna veneta raggiunse Brindisi. Quel viaggio, ordinario come molti altri, diede modo al giovane Salgari di conoscere l’ambiente marinaro. Un’esperienza che il futuro scrittore esagerò, descrivendo se stesso come capitano di mare, esploratore navigato, conoscitore di luoghi esotici e remoti. Ma come qualcuno fece notare successivamente, volendo screditare l’autore veronese, Salgari fu solo ed esclusivamente un “semplice mozzo”. Sì, ma dotato di una creatività letteraria senza eguali.
Ed è proprio suddetta creatività che emerse nelle quattro puntate del suo primo racconto, I selvaggi della Papuasia, pubblicate su una rivista milanese nel 1882. Un anno più tardi sarebbe stato il turno de Le tigri della Malesia, titolo con il quale si inaugurò il fortunato ciclo indo-malese. Il chiarore delle immagini presentate, l’attendibilità scenica dei panorami selezionati, la veridicità dietro gli eventi storici citati, tutto lasciava presagire al lettore medio una sconfinata esperienza pratica coltivata in anni di viaggi ed esplorazioni da parte di Salgari. Tuttavia il lettore medio ignorava come lo scrittore a malapena avesse sconfinato il Veneto.
Quello che Salgari scriveva derivava da un ossequioso lavoro di formazione bibliotecaria. Egli trascorse chissà quante giornate dietro libri che descrivevano terre lontane, eccentriche per il borghese ottocentesco, insolite quasi per chiunque. Grazie a quelle descrizioni così immersive Salgari ebbe immediato successo editoriale. A fomentare ancor di più i lettori era certamente il tratto schietto (giornalistico, oserei dire) di cui egli si fregiò. Sia chiaro, il candore e la franchezza della cifra stilistica salgariana non era cosa gradita a chiunque. A disprezzarlo erano vari editori, diversi critici letterari, che lo relegavano a scrittore per bambini e romanziere da poche lire. Non la pensava così, per fortuna, la regina Margherita di Savoia che nel 1897 lo insignì del titolo “Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia”.
L’avvicinamento alla corte sabauda – preceduto dal soggiorno genovese – significò due cose: lo spostamento a Torino e l’accesso alla biblioteca reale. Apparentemente un duplice guadagno, in concreto avveniva tutt’altro. Salgari scriveva, e tanto anche, ma non guadagnava abbastanza. Sul tramontare del XIX secolo pubblicò Il Corsaro Nero – forse il suo più riconoscibile capolavoro – ed altri romanzi degni di nota. Con la moglie Ida Peruzzi accolse nel quinquennio 1896-1901 la lieta nascita dei tre figli: Nadir, Omar e Romero. La primogenita Fatima era nata nel ’93. L’insoddisfazione divenne ben presto una costante dell’esistenza di Emilio Salgari. Così scrisse lamentandosi della personale condizione con un amico: “La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni […] io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno e alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi”.
E per cosa? I pochi guadagni (pochissimi a fronte della colossale produzione) non bastavano a sorreggere lo stile di vita di Salgari, che da signore (giustamente, n.d.r.) voleva vivere. Certamente non aiutava la sua poca accortezza in sede d’affari. Durante i primi del Novecento, quando divenne lo scrittore italiano più tradotto al mondo, Salgari, a causa di contratti sfavorevoli da lui sottoscritti, era stipendiato dalle case editrici a lui connesse. Insomma, l’autore non guadagnava direttamente dai suoi lavori, ma dalla volontà di opportunisti pronti a spolpare fino all’osso quella gallina dalle uova d’oro amante del marsala e accanita fumatrice. Perché sulla scrivania di Emilio poteva anche trovarsi il mondo, ma questo era in buona compagnia del posacenere e della bottiglia.
A lungo andare i pesi della vita si accumularono, i fantasmi di un’esistenza tormentata presentarono il loro conto. I debiti che inseguivano Salgari quotidianamente, la già citata insofferenza produttiva, la precoce demenza della moglie e il sostentamento dei tre figli rappresentarono la soglia oltre la quale poter trovare solo la morte. Una fine violenta ricercata, perché già nel 1909 tentò di gettarsi contro una spada, ma alla vista dell’amata figlia Fatima si fermò in tempo. Il sentimento amoroso lo risparmiò ad un’eclissi che si sarebbe verificata due anni dopo.
Il 25 aprile 1911, all’età di 48 anni, nel boschetto di Val San Martino si tolse la vita. Lo fece con un rasoio, sventrandosi. Si definì “vinto” dalla società che l’aveva sfruttato. La lettera testamentaria risuonò come un’accusa d’ingratitudine a quel mondo che da una parte ne aveva accresciuto la fama ma che dall’altra lo affossò fatalmente.
“A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna”. Così si espresse, in definitiva, quel sognatore di realtà straordinariamente tangibili benché lontane mille miglia. Viaggiare con la mente, fantasticare, dare libero sfogo all’immaginazione, non è un esercizio retorico fine a se stesso, Salgari l’ha dimostrato con i fatti, anzi, con le parole.