In vista della riapertura del Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia, avvenuta oramai due anni e mezzo fa, gli addetti magazzinieri fecero un giro di ricognizione nel deposito solo per naturale premura e accortezza. Attenzioni, queste, che ripagarono enormemente! All’interno di una scatola semi-nascosta gli esperti ritrovarono tre frammenti marmorei appartenenti ad una delle statue più strabilianti del roster museale: un Apollo in fase di slancio alto quasi due metri. Scultura che, a seguito di rispettabili analisi, risulta essere la copia in marmo (e in miniatura) del Colosso di Rodi!
La supposizione preliminare è divenuta valida interpretazione nel momento in cui si sono riuniti i proverbiali pezzi del puzzle. Nel suo complesso l’opera dovrebbe risalire al I-II secolo d.C. Nel 1957 i ricercatori trovarono la statua nei pressi di Villa Simonetti (villa marittima del giureconsulto Ulpiano, Civitavecchia). Il rinvenimento, unico nel suo genere, per qualche motivo non garantì l’esposizione “totale” del giovanissimo Apollo, con la mano destra, la gamba sinistra e la fiaccola impugnata che finirono nel già citato deposito museale, almeno fino al 2021.
Un enorme contributo allo studio e all’analisi dell’opera scultorea va riconosciuto a Paolo Moreno. Lo specialista di scultura greca, venuto a mancare due anni fa, ha trasmesso con le sue ricerche una comprensione accurata sulla storia del marmo di Civitavecchia. Attraverso lo studio e la comparazione delle fonti letterarie e grafiche a disposizione, Moreno ha concluso come la raffigurazione apollinea fosse nientemeno che una replica del Colosso di Rodi.
Esatto, una delle Sette Meraviglie del Mondo Antico, statua bronzea dalle dimensioni ciclopiche realizzata intorno al 293 a.C. L’autore del capolavoro, alto 32 metri, fu Carete di Lindo, validissimo allievo dell’infinito Lisippo. Si ricordi quest’ultimo come uno dei più grandi scultori e bronzisti che l’umanità abbia mai conosciuto. Non è un caso se lo stesso Alessandro Magno lo considerasse praticamente come il suo artista feticcio. Ma non vogliamo spendere troppe parole sull’originale Sole-Helios, di cui vi abbiamo abbondantemente parlato in passato. Torniamo sul caso civitavecchiese.
L’Apollo-Helios è in chiara flessione, con il busto che tende a torcersi verso il suo lato mancino. Visibile è la faretra sulla schiena mentre si può solamente immaginare l’arco che sempre sulla sinistra doveva poggiare verticalmente sul terreno. Si presuppone come l’arma a lungo raggio, nell’originale di Rodi, avesse una duplice funzione. La prima riguardava l’equilibrio garantito da una base d’appoggio salda, considerando lo slancio dell’opera. La seconda rispondeva ad una necessità pratica; internamente all’arco passavano i tiranti di ferro, di cui le fonti antiche ci lasciano menzione. Funzionali, quest’ultimi, per tenere fissato a terra un colosso del genere.
Sono diversi gli elementi che suggeriscono la “parentela” tra le due opere. Oltre alla vistosa similitudine posizionale, consideriamo anche i dettagli del volto del dio Apollo. In definitiva ci tengo a sottolineare l’importanza culturale di un marmo simile, di cui purtroppo mancano ancora all’appello alcune parti. Grazie all’Apollo di Civitavecchia si comprende meglio la gestualità, l’imponenza, la superbia di un’opera inimmaginabile (solo all’apparenza, a quanto pare) per i canoni del III secolo a.C. Perciò, in modo provocatorio ma non lontanissimo da una verità fattuale, ci chiediamo: e se il Colosso di Rodi si trovasse a Civitavecchia?