L’Impero giapponese durante la spinta espansionistica e il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale al fianco delle potenze dell’Asse, si macchiò di molti crimini. Uno tra i più efferati e disturbanti è la condizione di schiavitù al quale costrinse le cosiddette donne di conforto.
Così venivano chiamate le bambine, ragazze, rapite dai militari dell’esercito imperiale giapponese, costrette a subire continue violenze. Le giovani vittime, schiave sessuali, non erano reclute volontarie come a lungo affermato. Vi è una corrente storiografica che ancora sostiene tale tesi – per citare un esempio noto: Lee Yeong-Hun. Ma le testimonianze di queste donne rivelano il becero tentativo del governo giapponese di tacitarle.
La locuzione italiana deriva dalla traduzione di quella inglese, che a sua volta trae origine dalla parola giapponese ianfu (慰安婦), eufemismo che sta per la parola shofu (prostituta, 娼婦). Queste donne provenivano per lo più dalla Corea, dalla Cina, ma anche dalla Thailandia, dal Vietnam, dalla Malesia. Tutti i territori occupati dalla belligerante Tokyo venivano sottoposti a questa sorta di tratta schiavistica: le donne prelevate e trasferite in paesi a loro stranieri. La stima del numero di donne coinvolte resta ancora oggetto di studio (in questo i giapponesi si contraddistinsero durante gli anni di guerra, occultando spesso dati, numeri, documenti incriminanti, freddi quanto macabri resoconti). Si parla comunque di centinaia di migliaia.
Il primo centro di conforto vene istituito a Shanghai nel 1932, e questo reclutava donne giapponesi volontarie. Ma con il difficile proseguo della guerra i giapponesi smisero di reclutare le donne con metodi convenzionali. Il ministero degli affari esteri negò l’ulteriore rilascio di visti di viaggio per le prostitute giapponesi. Del resto questo poteva danneggiare l’immagine dell’impero. Questo spinse per lo più a catturare le donne dei territori occupati.
Questa tratta umana non sembrò costituire un problema fino alla chiusura dei centri di conforto, dopo la Guerra di Corea (1950-1953). Il Giappone non fece menzione di questo fino a quando non ristabilì delle relazioni diplomatiche con la Corea del Sud.
La pima menzione relativa al sistema di schiavitù sessuale fu quella di Kakou Senda. Le prime testimonianze delle donne vittime di questo brutale complesso avvennero nel 1989. In seguito alle numerose testimonianze, il governo giapponese tramite il segretario Yohei Kono nel 1993 ammise le sue colpe. Nella dichiarazione, dopo anni di continue negazioni, l’esecutivo ammise che durante la guerra, l’esercito imperiale aveva costretto le donne a prostituirsi nei bordelli militari. Nonostante ciò il governo giapponese rifiuta ancora oggi di sottoporsi ad una corte estera (o internazionale) per i propri crimini di guerra.