Rintanato tra le altissime e leggendarie vette dell’Himalaya esisteva una volta l’antico Regno del Nepal, sopravvissuto per 240 anni circa e succeduto dall’attuale Repubblica Federale Democratica. Gli estremi cronologici di quella monarchia sono il 1768, anno della sua fondazione, ed il 2008, anno dell’istaurazione repubblicana. Questo è vero, ma solo sulla carta, perché in realtà la fine della dinastia reale nepalese ha una data esatta, che in molti ricordano con ribrezzo e sincero disgusto: il 1° giungo 2001. In quel giorno – o per meglio dire, in quella notte – il principe ereditario Dipendra si rese protagonista di un atto insensatamente spietato e inspiegabilmente folle. Quel giorno il Nepal, un pacifico stato nascosto dietro una delle catene montuose più alte al mondo, divenne il centro dell’attenzione mediatica globale.
Prima di cimentarci a pieno nei scabrosi fatti di quella notte d’estate del nuovo millennio, bisogna fare un passo indietro e scavare tanto nella personalità di Dipendra quanto nel contesto economico, politico e sociale del paese della quale guida avrebbe ereditato. Eventi di notevole portata scossero il Nepal degli anni ’90. Citiamo ad esempio il cambio di status del regime (da monarchia assoluta a monarchia parlamentare); la guerra civile del ’96; la lenta ed incerta democratizzazione del paese. Le turbolenze interne al piccolo stato himalayano non mancavano, ma una certezza quasi monolitica era insita nel cuore della popolazione: il rispetto per la casa reale nepalese. Quest’ultima godeva dell’amore e della stima dei sudditi. I suoi membri erano fonte d’ispirazione ed ossequio.
Tra questi spiccava il principe ereditario Dipendra, figlio del re Birendra e della regina consorte Aishwarya. Sebbene Dipendra non fosse particolarmente entusiasta della svolta democratica voluta dal padre, non manifestò mai contrarietà all’idea. L’erede al trono amava sottolineare come prima di tutto Birendra fosse il suo sovrano, e solo in secondo piano suo padre. Vivace ed energico, il principe adorava lo sport ma, sopra ogni cosa, venerava le armi. Tutti a corte erano ben consapevoli del fornito arsenale di proprietà del principe e del suo passatempo preferito: sparare agli uccelli nei giardini di palazzo. Il popolo ignorava quell’aspetto, esaltandone al contrario la personalità ad ogni apparizione pubblica e ad ogni pubblicazione propagandistico-letteraria di cui il reale era avvezzo.
L’articolo di un autorevole giornale nepalese pubblicato il 27 maggio 2001 recitava: “La gente sta iniziando a chiedersi perché il Principe Ereditario non sia sposato alla sua età, e se il suo futuro di erede al trono non sia a rischio. È ora che Sua Altezza Reale si sposi. Il popolo nepalese desidera celebrare le sue nozze al più presto e nella maniera più sfarzosa“. Pettegolezzi, chiaramente. Eppure dietro quelle parole si nascondeva una triste – successivamente tragica – realtà.
Durante la sua permanenza formativa nel Regno Unito, Dipendra incontrò una ragazza indiana, Devyani Rana. Lei era esponente di una potente dinastia reale indiana; il principe nepalese comunicò alla sua famiglia di volerla sposare. L’ostruzionismo dei genitori di lui, i reali del Nepal, fece saltare l’unione. Il diniego causò dolore nell’animo e nella psiche dell’erede al trono. L’opinione pubblica non era a conoscenza di questa sottotrama, limpida invece a corte, dove tutti per anni seppero degli incontri segreti tra i due amanti. L’articolo del 27 maggio predisse fatalmente la catastrofe che di lì a poco avrebbe travolto il Nepal.
La sera del primo giugno la famiglia reale organizzò una festa privata, non richiedendo perciò la presenza delle guardie di palazzo. Dipendra si presentò ubriaco all’appuntamento, ma la cosa non sorprese nessuno. Il principe era solito alzare il gomito, causando più di qualche imbarazzo ai parenti. Sembra che l’erede al trono stesse per far scoppiare un litigio col padre quando, con l’aiuto del fratello minore e del cugino, tornò nelle sue stanze. Dipendra riposò un paio d’ore, non di più; al risveglio chiamò l’amante Devyani e in modo sconnesso pronunciò parole di disappunto, amarezza e chissà, pentimento. La chiamata si concluse, il giovane reale indossò la sua divisa da parata, aprì l’arsenale e prese tre rivoltelle.
Senza batter ciglio, come vittima di un incantesimo malefico, si diresse nella sala da biliardo, dove la sua famiglia stava concludendo la festosa serata. Dipendra aprì il fuoco e uccise il capo di stato, il re prima ancora che suo padre. Gli altri dieci membri presenti in sala attesero qualche secondo prima di urlare disperatamente: tanto era surreale ciò che stava accadendo. Le urla si alternarono agli spari, nessuno la scampò. Le guardie reali non riuscirono a fermare la furia omicida del principe, che volse il passo verso i giardini di palazzo.
Là incrociò i passi della madre, del cognato e del fratello. Ferì mortalmente i primi due, mentre il secondo, che pure non evitò il colpo a bruciapelo, sopravvisse (divenendo l’ultimo sovrano in carica dopo il massacro). Dipendra puntò quindi la pistola verso la propria testa. Premette il grilletto e pose fine a quell’immane sciagura. Non appena la notizia divenne di dominio pubblico, si scatenarono le più disparate teorie del complotto. La verità era tanto semplice quanto cruda: il principe fece quel che fece in preda ad un raptus di follia. Dovuto a cosa? A tutto, a niente.
In Nepal, da sempre terra di superstizioni e credenze, fin dall’incoronazione del re Birendra nel 1975 girava una profezia vecchia quanto la dinastia regnante, quella degli Shah. Quest’ultima era giunta alla decima generazione con il sopracitato re; a rappresentare l’undicesima sarebbe stato Dipendra. Il dettaglio non è da poco.
La tradizione vuole che il primo re della dinastia Shah, nonché unificatore del Nepal nel XVIII secolo, tale Prithvi Narayan Shah, un giorno si imbattesse in un asceta malconcio. L’anziano, in missione di pace, si vide offrire del formaggio rancido. Una volta mangiato, il sant’uomo lo rigurgitò immediatamente e ordinò al sovrano di cibarsi di quel rigetto per scusarsi. Il primo degli Shah si rifiutò e rispose rovesciando la ciotola ricolma di vomito. Istintivamente l’anziano asceta si riparò il volto, sporcandosi tutte le dita delle mani e al contempo rivelando la sua vera identità, quella del dio Gorakhan. Furibondo, la divinità profetizzò la sopravvivenza della dinastia per tante generazioni quante erano le dita sporche di rigurgito. L’undicesima avrebbe causato la fine tragica ed irrimediabile degli Shah. Così fu.