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Dibattito sulla pena di morte: dai greci a San Tommaso, la giustizia che non guarda il boia

Dibattito sulla pena di morte: dai Greci a San Tommaso

Nel mondo occidentale, il dibattito sulla pena di morte ha interessato molte menti per oltre 2 mila anni. I primi a interrogarsi sulla sua funzione furono i Greci, alcuni guardando al passato altri al futuro. Queste due fazioni stavano a significare che le loro convinzioni in materia riflettevano due opposte prospettive. Guardando al passato, la pena di morte assumeva una funzione retributiva, ossia quella del ben noto “occhio per occhio, dente per dente”. Mentre invece, chi guardava al futuro, si preoccupava degli effetti che una punizione così definitiva potesse avere sulla società intera.

Cesare Beccaria non fu il primo a formulare certe argomentazioni. Infatti, già molti secoli prima di lui si erano messi in discussione i presunti effetti deterrenti della pena di morte. Scrive Diodoto che laddove la pena di morte fosse stabilita per moltissimi crimini, anche non gravissimi, vi erano sempre malfattori che continuavano a perpetuarli, sperando nell’impunità. Dal suo punto di vista, il modo migliore per garantire la sicurezza di una comunità, era praticare la moderazione e il buon governo. Solo così si sarebbero prevenute le cattive azioni. Accanto a chi, accecato dall’ira e dalla rigidità, portava avanti la legge del taglione, vi erano filosofi e sofisti che proponevano soluzioni alternative.

Già nel Protagora, uno dei dialoghi socratici, si spiegano le ragioni per cui uno Stato infligga una punizione. Per Protagora ad esempio, la pena è la prova che una virtù possa essere insegnata. Con grande lungimiranza, egli afferma che “chi cerca di punire secondo ragione, non punisce a motivo del delitto trascorso, ma in considerazione del futuro, affinché non commetta nuovamente ingiustizia quello stesso che viene punito, né altri che vedano costui punito”. Coloro che invece puniscono chi commette in giustizia solo in virtù del fatto che hanno commesso un’ingiustizia, non fanno altro che abbandonarsi al desiderio di vendetta, al pari di una belva. Sagge parole, poiché è qui che si legge la prima fortissima critica alla teoria retributiva delle pene.

Il dibattito ideologico continuerà a ripetersi in queste forme per lungo tempo. Anche a Roma, nel II secolo d. C., si discute sulla pena di morte, seguendo queste due esatte linee di pensiero. Entrambe nate ad Atene, le due prospettive maggioritarie trovano rispettivamente numerosi sostenitori ancora oggi. Nel corso della storia, il dibattito sulla pena di morte divenne più controverso con l’affermarsi della religione cristiana. Come poteva un cristiano conciliare la condanna capitale con il sacro divieto di uccidere? San Tommaso offre risposte interessanti a tale dilemma.

In accordo con l’antico principio del bene supremo (successivamente definito utilitarismo), l’Aquinate afferma che il bene comune vale più di quello di un solo individuo. Secondo questo ragionamento dunque, se la vita di un delinquente diveniva nociva al benessere comune, mettendo a repentaglio l’ordine della società, era lecito ucciderlo. Rinforza poi questa visione con un parallelismo tratto dall’ambito della medicina; se un’infezione minaccia il corpo, “il medico taglia a buon diritto la parte malata”. Alla stessa maniera un Principe poteva mettere giustamente a morte i delinquenti, per evitare che con il loro operato corrompessero la morale del resto della società. La visione che San Tommaso aveva della società era quella di un organismo vivente. Ciascun uomo stava a tutta la comunità, come una parte sta al tutto. Se questi risultava disgregativo per l’integrità strutturale dell’insieme, doveva essere soppresso, salvaguardando così il bene comune.

In questo modo si aggirava il divieto di uccidere, poiché non si poneva fine alla vita di un uomo virtuoso, ma di uno cattivo, che con i suoi peccati veniva considerato ancor peggio di una bestia. In conclusione, nel passato i sostenitori della pena di morte superavano nettamente chi la pensava diversamente. Ciò non toglie che è stato proprio grazie a tale minoranza di pensatori, che in Età Moderna è stato possibile concepire un movimento realmente abolizionista. A loro dobbiamo il progresso della nostra società, che nonostante manchi ancora di sufficiente temperanza, ha a disposizione l’esempio degli uomini del passato per comprendere quale sia la giusta strada da seguire.