Nel 52 a.C. andò in scena uno degli scontri più noti e ricordati della storia, la battaglia di Alesia. Fu indubbiamente un momento di svolta nell’intero processo di conquista romana della Gallia. Per molti versi il conflitto ad Alesia assunse le sembianze di una viscerale lotta identitaria prima ancora che politica e militare. Da una parte le legioni della Repubblica romana, guidate dal proconsole Gaio Giulio Cesare, dall’altra la coalizione gallica a capo della quale si pose Vercingetorige, indiscusso e carismatico leader degli Arverni. Quest’ultimo fu chiamato ad un’impresa complicata, se non impossibile: bloccare l’irruenza di Roma, fermare la brillantezza tattico-strategica di Cesare. Egli provò a conseguire il suo obiettivo, anche forte di un esercito numericamente superiore e meglio posizionato (almeno sulla carta). Ma per capire come si giunse al redde rationem, dobbiamo calarci per un attimo in un più generico contesto.
Dopo il consolato del 59 a.C. e i conseguenti accordi non scritti del Primo triumvirato, Giulio Cesare divenne governatore dell’Illirico, della Gallia Cisalpina e della Gallia Narbonense. Con il pretesto di voler sedare le lotte intestine tra le tribù galliche, Cesare diede avvio ad una grande campagna militare nei loro territori. Siamo al 58 a.C. In realtà questo agire trovava giustificazione nella volontà espansiva di Roma, nelle sue velleità di affermazione, dominio ed influenza, nonché nell’ambizione politica di un tipetto come Gaio Giulio Cesare.
Trovato il pretesto teorico, serviva un primo atto dimostrativo, che potesse coinvolgere a pieno la forza dell’esercito romano. La Res Publica ritenne inaccettabile la migrazione che gli Elvezi stavano compiendo ad occidente della Narbonense. L’intervento militare per impedire che ciò avvenisse, fece entrare Roma nel marasma delle diatribe gallo-celtiche. Con il passare degli anni si susseguirono guerre e battaglie che arrisero il più delle volte alle legioni romane e permisero loro di assoggettare una tribù dopo l’altra, dalla Gallia Belgica, proseguendo per la costa atlantica ad ovest, l’Alsazia ad est, oltre la Manica a nord. Tre furono le costanti di questo progressivo espansionismo: spietata efficienza, forza bruta quando necessario, arguta diplomazia.
Si arrivò così al 52 a.C. La Repubblica poteva dirsi soddisfatta: aveva esteso la sua influenza su gran parte delle popolazioni galliche, che chinavano il capo al passare dei legionari. “Gran parte” lascia intendere implicitamente che non “tutti” avevano accettato a cuor leggero l’impeto romano. Tra questi ci fu Vercingetorige, capo degli Arverni che si sollevò contro l’invitta supremazia dimostrata dal proconsole Cesare. La ribellione che si innescò raggruppò tutti i Galli ostili a Roma in una singola coalizione; questa avrebbe sfidato l’esercito romano nella battaglia di Alesia per spezzare la presa repubblicana sui territori d’oltralpe.
Vercingetorige non si distinse esclusivamente come abile leader politico, bensì aggiunse al curriculum delle abilità quella squisitamente bellica. Comprese come in campo aperto gli schieramenti di Cesare fossero pressoché imbattibili, diversa era la musica se lo scontro tra le parti fosse avvenuto in scenari di guerriglia, dove a farla da padrona era l’imboscata e il fattore sorpresa. Il capo degli Arverni riportò una rara e sorprendente vittoria contro le legioni a Gergovia, sempre nel 52 a.C. Il successo convinse Vercingetorige della necessità di ritirarsi sull’altura di Alesia, nel territorio dei Mandubi, che bene si prestava alla difesa e soprattutto alla massiccia fortificazione. Comprendere perché è semplicissimo, basta osservare una cartina geografica, anche moderna. La rocca di Alesia svettava su un altopiano circondato da ripidi rilievi e dai due corsi d’acqua Ose e Ozerain.
Qui ritorna utile il sempreverde De bello Gallico, una fonte d’importanza capitale, in cui Cesare descrive l’intera guerra contro i Galli. Nel libro VII, capitolo 69, il proconsole afferma:
«La città di Alesia si trovava alla sommità di un colle molto elevato […] Le radici di questo colle erano bagnate da due parti da due fiumi. Davanti alla città si estendeva una pianura di circa tre miglia, dagli altri lati la città era circondata da colli di uguale altezza posti a non molta distanza.»
L’attendista Vercingetorige si contrapponeva all’intrepido Cesare. La strategia difensiva per eccellenza doveva far fronte all’eccelso disegno tattico dietro l’assedio di Alesia. Il palcoscenico per uno degli scontri militari più conosciuti dell’intera storia umana era pronto ad infiammarsi.
Sull’entità delle forze in campo l’unica fonte a cui si può far riferimento è Cesare, chiaramente. Detto ciò, si potrebbe riscontrare della faziosità nei resoconti romani, ma con un po’ di sano spirito critico e senso del realismo, suddette fonti possono raccontare comunque una verità parziale. I Romani schieravano dieci legioni: dalla VI sino alla XV, più la I che Pompeo prestò a Cesare nel 53 a.C. A questi si aggiungevano all’appello circa 10.000 ausiliari. I Galli di Vercingetorige potevano contare su 80.000 armati entro le fortificazioni di Alesia, con 15.000 unità a cavallo. Non erano i soli, perché esisteva un esercito di soccorso in marcia verso la rocca di circa 250.000 uomini, sotto il triplice comando dei capi tribù Commio, Viridomaro, Eporedorige e Vercassivellauno (quest’ultimo cugino di Vercingetorige). Un totale di 350.000 uomini, seppur rimanendo larghi con le stime.
La battaglia di Alesia ancora ad oggi è considerata un esempio da manuale di come debba essere condotto un assedio in inferiorità numerica. Solo con la forza sarebbe stato impossibile battere i nemici, perciò Cesare escogitò un piano geniale per gli standard di allora. Pensò bene di far morire di fame gli assediati (i senesi sanno bene di cosa sto parlando…) grazie ad un approccio lento e metodico. Il proconsole ordinò la costruzione di una doppia linea di fortificazioni attorno alla città. Una tattica nota come “circonvallazione” e “controvallazione“. La linea interna, lunga circa 18 chilometri era progettata per impedire ai Galli assediati di fuggire. Mentre la linea esterna, che si estendeva per circa 21 chilometri, svolgeva una mansione prettamente difensiva contro l’arrivo dei rinforzi.
Due semplici linee contenitive causarono la caduta di Alesia? Mh, definirle “semplici” è tutto fuorché corretto. Le fortificazioni di Cesare comprendevano fossati, palizzate e torri di guardia, tutte meticolosamente progettate per resistere agli assalti. Fu un’opera letteralmente colossale. I fanti romani dovettero percorrere distanze considerevoli per raccogliere tutto il necessario; basti pensare al solo legname. Le legioni lavorarono instancabilmente per completare suddette difese. Ah, nel mentre gli uomini di Vercingetorige non se ne stavano con le mani in mano. Essi tentarono in tutti i modi di disturbare i lavori, con delle continue sortite, anche se su piccola scala.
Alesia fu sì un capolavoro della tattica militare, ma anche un esempio di disumanità prostrata all’esigenza della vittoria. Mi spiego meglio. La rocca aveva scorte limitate, che non potevano bastare sia alla popolazione civile che ai soldati. In guerra, quest’ultimi venivano prima di donne, vecchi e bambini. Vercingetorige ordinò l’espulsione di tutti coloro che non avrebbero potuto impugnare una spada. Lo fece aspettandosi che Cesare mostrasse pietà, aprendo le difese. Beh, non saremmo qui a parlarne se il proconsole avesse agito mosso dalla pietas. Con le linee fortificate chiuse, la popolazione restò bloccata nella terra di nessuno. Giustamente essi chiesero quantomeno di tornare indietro, nella cittadella. Ma il comandante gallico che doveva mostrarsi alla pari dell’illustre avversario li lasciò lì, a morire di stenti.
Dopo un mese di asfissiante assedio, il composito esercito di soccorso giunse al cospetto dei Romani. E fu allora che accadde l’incredibile. Da assedianti, le legioni divennero assediate. Un duplice fronte, interno ed esterno, minacciava la tenuta degli uomini di Cesare. Lo stesso proconsole si muoveva tra le linee per infondere coraggio tra le truppe e per dirigere contrattacchi mirati. Uno di questi si rivelò salvifico. La sezione occidentale delle fortificazioni romane crollò. L’evento permise ai Galli di violare la barriera ed irrompere nel sistema difensivo. Protetto chissà da quale spirito, Cesare mosse verso gli attaccanti con un’unità di cavalleria germanica. Li sbaragliò e trasformò l’azione da difensiva ad offensiva, scomponendo le schiere galliche.
La forza di soccorso di Vercingetorige si disintegrò, rovinando il morale dei difensori di Alesia. Il loro capo si rese conto che la resistenza era inutile e si arrese il giorno seguente. La sua capitolazione segnò la fine della resistenza organizzata e la conseguente ascesa romana sulla regione. Con la vittoria Cesare consolidò le sue prerogative sulla Gallia intera, cosa che gli permise di aggregare la provincia ai territori della Res Publica. Bisogna leggere tra le righe, andando oltre il dato politico e militare: adesso nelle casse di Roma fluivano le ricchezze e le risorse che il controllo della vastissima regione garantiva.
Il Senato proclamò venti giorni di festeggiamenti, ma con riserva, perché non permise a Cesare di celebrare il tradizionale trionfo. Poco importava, il dictator l’avrebbe festeggiato dopo la guerra civile, in barba al riluttante ceto senatorio. Che ne fu di Vercingetorige? I legionari lo incatenarono e lo trasportarono a Roma, dove venne fatto sfilare come pubblica umiliazione. Attenzione, perché parliamo del 46 a.C. quindi dopo la completa affermazione di Cesare sui suoi nemici interni. Seguì l’esecuzione per strangolamento (ma non si ha la certezza sulle modalità).
Cos’altro dire? Impossibile non riconoscere l’epocale impatto che la vittoria di Alesia ebbe sull’equilibrio di potere nel mondo occidentale. Roma, che già aveva fatto del Mediterraneo il mare suum, diveniva dopo il 52 a.C. potenza continentale per antonomasia. Si erano gettate le basi della prosperità di cui godette la tarda Repubblica, quindi il Principato e l’Impero.