Con le dovute e prevedibili premesse, si può dire come le Corse dei Carri non nascano a Roma ma come Roma nasca con le Corse dei Carri. Menzionate da Omero nell’Iliade o centrali nel racconto mitico del Re Enomao di Pisa (Grecia), queste agguerrite competizioni caratterizzano già i tempi della fondazione capitolina. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che, secondo la leggenda, il Ratto delle Sabine sia avvenuto durante una corsa dei carri, fattore di distrazione totale per gli uomini e elemento da sfruttare per i romani disperatamente alla ricerca di una moglie.
E Tito Livio che ci descrive il noto episodio della tradizione non avrebbe avuto dubbi sulla scelta della manifestazione agonistica più amata dal popolo romano: altro che gladiatori o naumachie, le corse dei carri erano in cima alla lista di ogni civis – fin quando non furono vietate almeno (e sulla Rivolta di Nika del 532 dedicheremo un capitolo in futuro). Uno sguardo sullo svolgimento di queste gare ci permette di comprendere la loro centralità nell’intrattenimento pubblico del tempo.
Circo Massimo, Roma. Guarda un po’, il luogo dove avvenne il Ratto delle Sabine, tra Palatino e Aventino. Lo spazio in cui le urla di sostegno e disperazione si confondevano, dove la gioia per la scommessa vinta poteva incontrare lo sconforto per l’uscita dai giochi dell’auriga preferito. Per tutta la storia di Roma, ogni cittadino amante del furore competitivo era solito recarsi in questo punto di ritrovo. Egli prendeva posto tra gli spalti e attendeva l’inizio della gara, non senza aver scommesso su una delle squadre. Il pre-match fuori da un qualunque stadio di calcio, avete presente? All’esterno del Circo Massimo, tra il VI secolo a.C. e il V secolo d.C., dovevano accadere più o meno le stesse cose.
Appostati come rapaci, gli allibratori raccoglievano scommesse sulle fazioni partecipanti (Bianchi, Azzurri, Rossi e Verdi). Ad essi si affiancava una rumorosa teppaglia di indovini, astrologi, veggenti e profeti, in grado di leggere (chi tra le stelle, chi tra le pieghe di un destino già sancito) con anticipo l’esito della battaglia. Perché di battaglie si trattava in fin dei conti. Dietro le opportune camere sbarrate, poste in un lato dello stadio, scalciavano i cavalli e sbruffavano gli aurighi, impazientemente. Il direttore di gara allora lasciava cadere un panno bianco, detto mappa. Era il “via” che tutti aspettavano, dalla plebe fino al patriziato, dall’artigiano all’Imperatore. Chi guadagnava prima l’interno della corsia aveva buone possibilità di non finire travolto alla prima curva.
Ah, la prima curva: quel magico posto in cui cavalli, bighe e conducenti si ribaltavano dopo un rettilineo a quasi 70 km/h. Significava morte, o comunque gravi danni. Pensate che la norma per un cocchiere era legare le redini al bacino, così da “manovrare” più abilmente quelle bestie nervose e sgroppanti. Se andava lungo il cavallo, l’uomo lo seguiva malvolentieri, fin quando non tagliava di netto le corde con un apposito coltello custodito all’altezza del busto. Che poi questi incidenti (naufragia) erano premeditati. Le irregolarità erano all’ordine del giorno; tante volte capitava che un auriga, pur di favorire la scommessa dell’imperatore, rallentava appositamente per far vincere il “predestinato”. Ma se il giudice di gara lo notava, faceva ripetere la corsa (alcune fonti ci parlano di manifestazioni riavvolte fino al nastro di partenza per ben 10 volte).
Ma coloro che stringevano le redini e muovevano verso la gloria, esattamente, chi erano? Prevalentemente schiavi o comunque gente di bassa estrazione sociale. Alcuni ricorrevano alle pericolose corse dei carri per riscattarsi – e non dal punto di vista metaforico. I soldi derivanti da una vittoria, talvolta, rendevano ricchi, straricchi. L’esempio migliore è quello di Gaio Appuleio Diocle, ovvero l’atleta più ricco della storia umana. 24 anni di gare vinte, una lunga sopravvivenza che gli garantì un patrimonio di 35.863.120 sesterzi, convertibili in 2.600 kg d’oro (col cambio odierno corrisponderebbero a quasi 15 miliardi di dollari). Non male per un’attività contraddistinta dalla sportività, dal sano agonismo e dalla non violenza. Ah, scusate, quello è il golf.