Basta guardarci attorno in qualunque centro di qualsiasi città italiana medio-grande per poterli ammirare, imperanti su quelle torri incantevoli e ammalianti, sorte in un tempo remoto ma non abbastanza da sbiadire l’essenza della loro storia, pardon, della nostra storia. Parlo delle torri dell’orologio! Chi di voi ci legge da Padova, Mantova, Chioggia o Bologna (solo per fare quattro esempi ma la lista sarebbe lunghissima) ha la fortuna di ammirare alcuni degli esemplari più antichi d’Italia e d’Europa, risalenti addirittura alla prima metà del XIV secolo. Ma come si arrivò, apparentemente da un istante all’altro, a costruire sistemi meccanicizzati di una tale complessità? Perché se ne sentì la necessità? Nella “rivoluzione del tempo” ebbe particolare peso qualche influenza esterna al Vecchio Continente? Domande lecite, alle quali qui di seguito cercherò di fornire esaurienti risposte.
Per quanto riguarda l’ambito dell’orologeria, l’Europa del X-XI secolo poteva solamente chinare il capo di fronte alle maestranze arabe e cinesi. Come dimenticare il regalo impacchettato e donato dal quinto califfo abbaside Hārūn al-Rashīd al caro amico Carlo Magno nell’802. Si trattava di un orologio meccanico che impressionò i contemporanei a tal punto da dover costringere Eginardo ad annotare l’evento negli annali (Vita et gesta Caroli Magni).
In Cina non erano da meno, anzi. Gli astronomi al servizio del Figlio del Cielo (titolo sacro dell’imperatore cinese) concepirono dopo l’anno mille un’idea per la fabbricazione di un meccanismo che riproducesse fedelmente il tempo solare. Vennero proposti dei prototipi interessantissimi, il più noto dei quali è quello di Su Song, costruito intorno al 1090. Un’eccezionale combinazione di arti tecnico-meccaniche e sapienza astronomica garantiva risultati come quello appena citato.
A questo punto urge una puntualizzazione. Gli orologi fin qui descritti, seppur avanzatissimi ed encomiabili, funzionavano grazie ad un sistema a scorrimento continuo. Le conosciamo col nome di clessidre, dotate di regolatori idraulici e ammirate solo ed esclusivamente a corte, dall’imperatore e pochi altri privilegiati. In Europa si sentì la necessità di costruire l’orologio non di certo per accontentare il monarca di turno o per effettuare misurazioni astrali. Eh no, nel vecchio – e per certi versi arretrato – continente si palesò l’urgenza di misurare il tempo degli uomini. Anche se non sono i soli, si possono intravedere due fattori all’origine di questa rivoluzione del tempo: lo sviluppo di alcuni ordini religiosi (cistercense in primis) e la rinnovata vitalità delle città, laboriose ed operative isole in una sconfinata distesa feudale e fondiaria.
Tanto i monaci quanto gli abitanti delle città seguivano logiche artificiali per tutto ciò che riguardava l’attività quotidiana. Un siffatto ritmo poteva essere regolato solo da una misurazione altrettanto artificiale: l’orologio! L’archetipo vide la luce in qualche monastero dell’Europa occidentale tra XI e XII secolo. Le città seguirono a ruota, adattando i primi esemplari nelle torri civiche o sui campanili. Grazie a quest’ultimi, allo scattare dell’ora seguivano caratteristici rintocchi di campana, a cadenzare lo scorrere della giornata. Chi tra voi conosce un minimo l’inglese, il francese e il tedesco avrà certamente fatto caso ad una curiosità dal sapore prettamente linguistico. L’inglese clock, ovvero “orologio”, è simile per assonanza al francese cloche o al tedesco glocke, che tradotti significano “campana”. In grande stile si affermarono nei contesti urbani valori come la precisione e l’efficienza, rappresentanti della filosofia di vita occidentale dal Basso Medioevo in poi.
Seppur diversi per funzionamento di base, orologi e clessidre presentavano la stessa criticità: senza un freno il peso (per gli orologi) o il getto d’acqua (per le clessidre) disallineavano il meccanismo, facendolo sballare o accelerandolo. Era quantomai necessario scandire in frazionamenti quel flusso continuo che è il tempo. Vi risulteranno familiari le unità di tempo quali secondi, minuti ed ore…
L’ingegno umano acuisce nel momento del bisogno; a cavallo tra Due e Trecento questa massima si rivelò veritiera. Alcune delle menti più brillanti dell’epoca idearono un impianto di oscillazione che frenava e liberava la caduta del peso, dunque un sistema di scappamento. Questa, se vogliamo, fu l’innovazione nell’innovazione, perché permise in un primo momento di costruire enormi orologi da apporre sulle rispettive torri, ma in seguito – in un’ottica di “democratizzazione” del tempo – garantì la realizzazione di meccanismi più piccoli. L’orologio passò dal campanile all’abitazione del più abbiente, dalle credenze al taschino, arrivando sui nostri polsi.
E siccome siamo amanti dei proverbiali corsi e ricorsi storici, lascia il sorriso stampato l’esperienza del gesuita Matteo Ricci alla corte imperiale dei Ming negli anni ’80 del Cinquecento. Tra i tanti doni in onore dell’imperatore e dei suoi alti funzionari, l’unico a destare un certo stupore fu un orologio meccanico, invenzione tipicamente occidentale, simbolo di una rivoluzione senza tempo.