Perché non rilanciare la stagnante economia italiana, afflitta da discutibili dettami autarchici e dalla scarsezza produttiva nonché finanziaria, con il… Cinema! È quanto balenò nella mente dell’innominabile dittatore italiano (solita storia, mi spiace) negli anni ’30 dello scorso secolo. L’idea, questo bisogna riconoscerlo, non poteva definirsi fuori dal mondo. Il regime sfruttò a modo la convergenza di diversi fattori per inaugurare il più grande complesso cinematografico d’Europa, una città del cinema (ma guarda un po’…) che avrebbe fatto le fortune dell’Italia sotto dittatura, ma anche nell’immediato secondo dopoguerra fino al lento decadimento della partitocrazia. Ritornando a noi, da dove spunta fuori Cinecittà?
Anzitutto nasce da un’intuizione e da una necessità. La prima fu propria dei vertici di regime; la seconda, se vogliamo, possiamo definirla di matrice culturale e nostalgica. Nei primi due decenni del XX secolo l’Italia dimostrò di avere un certo ascendente sugli altri paesi in materia di cinema e grandi produzioni. L’abbiamo visto in un recente approfondimento su Cabiria (dalle menti di Pastrone e D’Annunzio), ma gli esempi si sprecano: Sperduti nel buio di Martoglio (1914) o Il ponte dei sospiri di Gaido (1921), solo per dirne due di numero. Con i ruggenti anni Venti la musica cambiò a favore dei film made in USA, fautori del sogno americano e specchio di una realtà sprizzante, energica, poco incline alla ricercatezza tipica delle precedenti produzioni europee e molto più improntata sulle daily realities (realtà quotidiane) americane. L’Italia voleva tornare a respirare quell’aria di predominanza cinematografica.
Da qui l’intuizione di Luigi Freddi. Il curriculum all’inizio degli anni ’30 parlava per lui: legionario fiumano, redattore del Popolo d’Italia e squadrista incallito, primo segretario dell’AGF e nel biennio 1923-24 capo ufficio stampa del PNF. Il suo ruolo era ben più che centrale soprattutto in campo culturale-propagandistico (le due cose andavano di pari passo, come è facile pensare). Ad esempio fu Freddi una delle figure di spicco nell’organizzazione della Mostra della Rivoluzione – aggiungete voi l’aggettivo – datata 1932. Poi un’altra cosa che giocava a favore di Freddi era la sua stretta amicizia con Galeazzo Ciano, genero del padre padrone d’Italia. Per farla breve, nel 1934 il nostro “amico” fu posto a capo della Direzione generale della cinematografia. Il suo compito era duplice: potenziare la promozione dell’industria cinematografica italiana e controllare la produzione della medesima. Volendolo svolgere il lavoro al meglio, Freddi programmò un viaggio negli States, dove prese accuratamente appunti.
Negli Stati Uniti Freddi strinse una fruttuosa amicizia col grande regista David Griffith. Ne avrebbe tratto vantaggio. Al suo ritorno in Italia, la situazione era ottimale per la progettazione di un grande piano. Ricordate i due pilastri attorno ai quali nacque Cinecittà? Intuizione e necessità si è detto. Bene, nel 1935 la prima passò il testimone alla seconda. Un brutto incendio devastò gli studi Cines, sino ad allora la principale società italiana ad occuparsi di produzione cinematografica. Il regime colse due piccioni con una fava. Esso, sotto le vesti della SAISC (Società Anonima Italiana Stabilimenti Cinematografici), acquisì la Cines e diede avvio a dei lavori sulla Tuscolana, nel quartiere Quadraro, a 9 km dal Campidoglio in linea d’aria.
Il lavoro partì a fine gennaio 1936 e terminò quindici mesi dopo, nell’aprile del 1937. Nasceva Cinecittà. Un enorme complesso, il più grande in Europa, composto da 73 edifici, di questi 21 teatri di posa. Vi erano centrali elettriche, palazzine amministrative e uffici della direzione. Tutto su progetto razionalista dell’architetto Gino Peressutti. Allora erano ben 600.000 m² (oggi ne sono di meno, circa 400.000 m²) adibiti allo spettacolo e alla propaganda. Si direbbe – utilizzando un termine inflazionato, ma che rende ottimamente l’idea – “distrazione di massa“.
Anche per attirare capitali stranieri e rendere più attraente il settore agli occhi degli investitori nacque Cinecittà. “Rivitalizzare l’economia” il motto imperante. Roma ci credeva davvero, il regime ci credeva davvero. Si procedette anche con una legislazione ad hoc per scoraggiare l’importazione di film stranieri a favore di una produzione locale. A giustificazione della duplice volontà venne promulgata nel 1939 la Legge Alfieri, con cui si istituiva l’Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (ENIC).
A battezzare gli studi di Cinecittà fu Scipione l’Africano, una pellicola del 1937 per la regia di Carmine Gallone. Chiaramente altro non si poteva fare, se non film dove il focus era incentrato su uomini forti, robusti, carismatici, leader in poche parole. La censura era quella che era. I primi – neppure troppo timidi – passi di un’industria vivace, oggi madre di 3.000 e passa pellicole, alcune di pregio assoluto (91 candidate dall’Academy, 51 vincitrici dell’Oscar). Intuizione e necessità, da queste due direttrici si erse quasi dal nulla la Hollywood romana, italiana ed europea, tanto sognata dal regime ventennale.