“Il principio di non contraddizione stabilisce che se una data proposizione A è vera, allora non può essere vera anche la sua negazione cioè la proposizione «non A». Ciò equivale a dire che una proposizione non può essere contemporaneamente vera e falsa” – secondo la Treccani. Non secondo Curzio Malaparte, un uomo secondo il quale tutto può e deve essere il contrario di tutto, una persona in grado di spaziare tra gli estremi della sua coscienza senza scrupolo alcuno. O lo si odiava, o lo si amava talmente a fondo da credere di poterlo capire, comprendere, concepire. Egli, però, era tutt’altro che afferrabile. Quello che segue è il tentativo maldestro di incastonare entro una cornice razionale un’esistenza volta all’adulazione della contraddizione. E se queste vi paiono parole prive di significato, talvolta vuote, figlie di una retorica fine a se stessa, aspettate di conoscere la vita di quest’uomo. Vi ricrederete.
Prima di essere figlio di un padre tedesco e di una madre italiana, Kurt Erich Suckert (Curzio Malaparte è il nome d’arte) è figlio di Prato, che lo accoglie con letizia il 9 giugno 1898. L’anno di nascita è già un programma. La sua è la generazione – insieme ai ragazzi del ’99 – di chi va a morire sull’Isonzo, sulle Alpi Giulie, sul monte Piana, sullo Zelbio e così via. Eppure Kurt contraddice persino il destino, perché indossa la sgargiante uniforme della Legione Garibaldina prima ancora che il Regno d’Italia sciolga le riserve sul proprio ruolo nella Grande Guerra. A 16 anni il ragazzo pratese vede solo di sfuggita il Fronte Occidentale, perché nel ’15 tornò in Italia, ponendo sul capo la penna degli Alpini.
La guerra, per lui come per altri, fu sinonimo di straziante dolore. Due episodi lo segnarono indelebilmente. La morte di un caro amico e l’esposizione all’iprite; il gas danneggiò irrimediabilmente i suoi polmoni, a vita. Scrisse di Caporetto, descrivendo il valore dei soldati che, in contrasto con l’inettitudine degli ufficiali, vendettero cara la pelle. Il primo libro finì nell’indice inquisitorio dello Stato italiano, perché vilipendente. Se vogliamo, la guerra fu la causa intrinseca del suo scetticismo nei confronti di quella ingrata democrazia. Una buona ragione per aderire ai Fasci di Combattimento nel 1920 e marciare su Roma nel ’22. Manifestò una certa propensione all’estremismo di destra tanto osannato dall’arte pittorica e letteraria; la stima per personaggi del calibro di Marinetti, Balla e Boccioni non era dunque convenzionale.
Nel 1925, in rispetto del costume vigente, egli rese meno germanico e più italico il proprio nome. Iniziò a firmarsi Curzio Malaparte, ironizzando sul cognome del compianto Napoleone. Nel regime, che progressivamente picconava le ultime colonne di una debolissima democrazia, Curzio rifletteva se stesso, o almeno lo fece fino al 1928. In quell’anno lo scrittore pubblicò “Don Camaleo“ un libro critico nei confronti dell’imborghesimento dell’Italia nera e scettico soprattutto sulla figura chiave della dittatura, LVI per intenderci. Non passò molto tempo prima che il Gran Consiglio esprimesse chiare perplessità sul libro. La censura fu il rimedio più efficace. Tuttavia questo non gli impedì di divenire direttore de “La Stampa” ed esercitare il mestiere per altri due anni.
Nei primi anni ’30 Malaparte scrisse e pubblicò in Francia “Tecnica del colpo di stato“. Un inno al domato aspetto rivoluzionario dell’ideologia dominante in Italia, l’aspetto che più di tutti aveva conquistato il cuore di Curzio. Considerato sovversivo, il libro non fu pubblicato né in Italia (su esplicita richiesta di Berlino, richiesta proveniente dalla Cancelleria del Reich, fate 2+2…), né in Germania, neanche in Unione Sovietica. Dal 1933 fino al 1936 il regime incarcerò, confinò e tenne sotto controllo l’irrefrenabile pratese. Troppi contrasti con i piani alti.
E col passare degli anni alcune sue idee in effetti andarono di traverso alla linea dettata da Roma. Il giornalista non si sposò (sebbene avesse storie qua e là). Soprattutto si dimostrò fermamente contrario alle Leggi Razziali che dal ’38 accomunavano il Terzo Reich e l’Italia. A testimonianza di ciò, Malaparte assunse come redattori presso il nuovo giornale “Prospettive” Moravia e Saba, notoriamente di origini ebree. In guerra egli vi tornò, prima col grado di Capitano, poi in veste di reporter. Per via del realismo con cui raccontava i fatti bellici in Jugoslavia, Ucraina, nell’URSS e in Polonia (che non erano gloriosi ed insigni, come voleva l’apparato informativo), il regime lo mise ancora sotto sorveglianza.
Con l’armistizio di Cassibile la quotidianità di Malaparte divenne vorticosa. Accusato dall’Asse e al contempo dagli Alleati, spia e contro-spia, amico per qualcuno, nemico per tanti altri. Neppure lui seppe esattamente cosa essere e come presentarsi fino al termine della Seconda Guerra Mondiale. Confusione, come si evince, che però non travolse il vigore della sua penna, attiva dal 1941 al 1944 in quello che ad oggi è considerato il romanzo capolavoro di Malaparte: “Kaputt“. Il libro accusò pesantemente le nefandezze della guerra, i suoi esecutori (con un occhio di riguardo alla Germania nazionalsocialista) e le disposizioni anti-ebraiche. La cifra accusatoria non fu estemporanea, affatto. Negli anni della Repubblica di Salò e del secondo dopoguerra, Malaparte se la prese con la Chiesa, con gli Alleati, anche con Napoli e i napoletani (accusati di disonore, perenne combutta col malaffare e becera furbizia).
Ma se alla contraddizione si è accennato, lo si è fatto per quella metamorfosi politica (non ideologica) che Curzio Malaparte sperimentò tra ’44 e ’45. Togliatti lo volle come collaboratore giornalistico per “l’Unità” e lui, come se nulla fosse, accolse la richiesta del segretario PCI. Per l’ex camicia nera della prima ora quelli furono gli anni del cinema (regista de Il Cristo Proibito) e del caustico giornalismo. Nel frattempo la fede fece breccia in un cuore fino ad allora ostinatamente contrario ai precetti religiosi. La contraddizione si materializzò fulgidamente, vivida come non mai, il 19 luglio 1957. Curzio Malaparte si spense a causa di gravi problematiche respiratorie (ricordate l’iprite?). Spirò con accanto un prete e con la tessera comunista nel taschino della giacca.
Sul monte Le Coste, altresì noto come Spazzavento, facente parte dell’Appennino pratese, si erge il mausoleo di Malaparte. Richiese esplicitamente di essere sepolto lì, dove è facile godere della vista di Prato, la sua amata Prato. Ed è forse la città che gli diede i natali nel lontano 1898 ad essere l’unico soggetto in grado di sfuggire alla logica ossimorica, la sola costante nella vita di un uomo libero di sbagliare, di vivere e di pensare.